Mostri marini

Continui cercando di convincermi che la tua teoria strampalata sia genuina, e insisti, con quella voce da venti sigarette al giorno a tentare di persuadermi sull’esistenza dei mostri marini. Ti ascolto distratta, niente di più e niente di meno. Mi gusto il caffè, ne sento l’aroma forte, il sapore intenso, lascio che la cremosità mi invada la bocca. Mi piace il caffè; lo sorseggio e si affacciano alla mente immagini di cupole nel sole, di minareti che svettano nell’azzurro del cielo e le voci dei muezzin che chiamano i fedeli alla preghiera.

La preghiera…

Dovrei andare in chiesa, è un sacco di tempo che non ci vado. Ho bisogno di pregare, di condividere i miei pensieri e confessare di desiderarti morto. Assistimi, santo angelo custode, soccorso delle mie necessità, conforto delle mie sventure…

Ecco ci vorrebbe proprio un angelo che mi indicasse la giusta via. L’arcangelo Gabriele, per esempio…

Fu lui che diede il caffè a Maometto, se non sbaglio, e dopo un po’ il profeta schizzò via a caccia di cavalli e donne. Domò quaranta cavalli e giacque con quaranta donne! Che forza! Ma che tipo di caffè gli diede l’arcangelo Gabriele a Maometto? Era arabica o che?

E i grani che re David portò in dono di nozze ad Abigail non erano grani di caffè? Che donna Abigail!  Astuta, forte, intelligente. Una che si fa sposare il giorno dopo che diventa vedova. Vorrei essere come lei, sposare un grande re, ma prima dovrei diventare vedova. Re David aveva fama di grande amatore. Un pastorello che diventò re di una grande nazione, uno che dava da mangiare alle capre i chicchi di caffè e le povere bestie saltellavano senza sosta. Le stesse che faccio saltellare prima di addormentarmi. No, quelle sono pecore, ma tanto ci sei tu, con le tue chiacchiere inutili, a farmi addormentare.

Domani andrò a confessarmi, ne ho bisogno. Ho bisogno di un prete, uno che assorba, come una spugna, tutto l’odio che ho dentro. Ma i preti non mi sono mai piaciuti, così leziosi nelle loro prediche. Preferisco i monaci, se proprio devo, un bel monaco come quello che faceva i decotti di caffè per i suoi confratelli in un monastero nello Yemen. Il primo barista della storia per quanto ne sappia. Me lo immagino con quella tunica lunga e pesante a preparar caffè per i suoi colleghi: a me un ristretto; io macchiato freddo; a me in vetro; a me lungo in tazza grande; io corretto all’anice. E poi si mettevano a danzare su se stessi girando come trottole.

Il movimento frettoloso e maldestro con il quale prendi la tazzina, mi riporta alla realtà. Poi una mossa che osservo e percepisco a rallentatore, un gesto visto già altre volte: due dita distratte e intorpidite dall’alcol che si muovono svogliate. Lo rivedo quel movimento, fotogramma dopo fotogramma, prevedo il risultato catastrofico di quell’azione svogliata. Vedo la tazzina che si inclina e il caffè che si spande sul centrotavola di lino. Osservo la macchia allargarsi e divorare il bianco immacolato del ricamo fatto dalla nonna.

«Guarda! Guarda cos’hai combinato?»

«Io… ma non è niente… »

«L’hai macchiato! Tu e la tua maledetta distrazione!»

«Be’, lavalo no?»

«Lavalo tu!»

«Io? Sei pazza! »

«Talmente pazza che preferirei essere chiusa in un manicomio invece di continuare a vivere con un bastardo come te!»

«Ma cosa ti prende?»

«Sei sbadato, sei insolente e ne ho le tasche piene di te e delle tue teorie strampalate che non hanno né capo né coda! Tu e i tuoi maledetti mostri marini del cazzo!»

«Fanculo!»

Sento i passi pesanti allontanarsi nel corridoio, la porta che si apre…

«Comunque i mostri marini esistono ancora…stronza!».

Un soffio di corrente fredda mi raggiunge e mi avvolge.

Resto sola con la macchia di caffè e i residui di cenere della tua ventunesima sigaretta. Come ho fatto a convivere con un uomo che non riesce nemmeno a tenere una tazzina in mano?

Alzo il vaso vuoto e tolgo il centrotavola, vado in cucina prendo lo sgrassatore per il fornello, un attimo prima di spruzzarlo sulla macchia di caffè mi fermo. Ha una forma strana, un po’ oblunga… ah sì, il Sudamerica! Ecco cosa sembra, il Sudamerica. La Colombia, l’Ecuador, Il Brasile, ecco me ne andrei in Brasile, con le sue piantagioni di canna da zucchero e caffè…

«Buongiorno amore! Ben svegliata, sono le nove. Ha chiamato tuo padre per ricordarti che alle dieci c’è il consiglio d’amministrazione e di non fare tardi come al solito»

«Il consiglio?»

«Ma che c’è tesoro? Hai una faccia…»

«No…niente…solo un brutto sogno»

«Mi dispiace piccola. Dai riprenditi, oggi è un gran giorno per te: diventi presidente di una multinazionale. Non sei contenta?»

«Sì, certo…»

«Forza amore, io devo andare. Ti ho preparato il caffè»

«No! Il caffè no!».

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Infradito

Era da un po’ che volevo comprarmeli. Quella domenica la gente girava già in pantaloncino e maglietta e il negozio era aperto, con quel suo marchio a forma di globo di un verde malinconico. Mi avvicinai alla rastrelliera per cercare la mia misura, ma di nero non c’era niente che potesse contenere i miei piedi, oltre al prezzo – odio le cose variopinte: mi confondono. Che fare? Gli altri li avevo scartati al primo sguardo: con i colori delle squadre di football dei mondiali. Per quel che mi riguardava gli stadi potevano anche  essere usati  per pascolarci il bestiame, mentre i pastori, dalle tribune, suonavano il piffero.

Scelsi l’Argentina, un po’ larga, ma ci stavo comodo.

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Chiamo dal mare…

Ciao amore come stai?

Da dove chiami?

Chiamo dal mare.

Il mare, che bello…

Dimmi amore, dimmi, come stai?

Il mare… ho tante cose da fare.

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L’ultimo oceano

Non c’è albero a cui legarmi

in quest’oceano tanto desiderato e non più voluto.

Quest’oceano quasi obbligato.

Quest’oceano allargato, ingrossato, deformato.

Quest’oceano incattivito come una donna tradita.

Quest’ultimo oceano da attraversare.

L’ultimo oceano da respirare.

L’ultimo oceano e poi basta.

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Gabbianella

Le fronde sferzano l’aria, la pioggia batte rumorosa sul salice che tracima oltre il muro, qualche uccello non trova riparo, qualche altro si. Il mare è lontano, ma i gabbiani hanno invaso l’entroterra già da tempo, già da anni: troppi. Quella femmina minuta con l’amo nel becco l’ho riconosciuta subito. L’anno scorso fece il nido sopra il tetto di fronte. Strano vedere un gabbiano così magro, così ossuto che sembra quasi secco, di solito sono belli grassi, così pasciuti che ondeggiano sotto il loro stesso peso. Quella femmina minuta con l’amo nel becco non è grassa, non ondeggia sotto il suo peso, perché il suo grasso, la sua sostanza, l’ha spesa tutta per il suo ultimo nato.

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ricordati…

Ricordati di me quando giungerà la sera.

Sarò tra quelle stelle sbiadite dalle luci della città.

Sai, quelle che a stento vedi quando alzi gli occhi al cielo

mentre togli il bucato che hai steso la mattina?

Scegline una e dalle un nome.

Osservala qualche minuto e intanto pensami.

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Leggera

Sopra quel fazzoletto di sabbia tossisci in ginocchio, 

hai bevuto troppo mare: sei ubriaca. 

Pensavi di poter superare le onde con un salto. 

Sei troppo leggera, troppo leggera. 

Forse dovevi aspettare che diventassi più pesante.

 

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Essa

Essa riposa placida, come una cortigiana irraggiungibile, distesa su acque velate da vapori tenui.
La spio; sa che la guardo, ma la sua indifferenza è commisurata alle mie premure nei suo confronti. Quando ritorno mi accoglie senza riserve nella sua alcova, ma le sue attenzioni non sono un’esclusiva durevole, essa distribuisce gradevoli sensazioni a chiunque, senza preferenze, senza predilezione: come una Geisha.

È la mia barca.

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Igloo

Torri di ghiaccio alla deriva.

Cumuli grigi solcano il cielo.

I venti urlano.

I mari ribollono.

Lassù le notti sono lunghe più dei mesi.

Non c’è via di mezzo, non c’è transizione.

I fiori non dormono: o sono vivi o sono morti.

Lassù il freddo ghiaccia anche i pensieri.

Lassù sotto gli igloo.

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Animus

Anima e Animus:

un po’ di te dentro di me

un po’ di me dentro di te.

Ci fungiamo, ci narriamo.

Inconsciamente ci ricreiamo.

L’uno disegna l’altra,

siamo due triangoli sulla carta.

Due emisferi che ruotano,

due animali che si fiutano.

Anima e Animus…

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