Anemos

Il cielo ringhiava da lontano mentre avanzavo poggiando a ogni sferzata di vento: affannavo sulla cresta e guizzavo nella china più veloce della pioggia; quando il sole, improvvisamente, decise di scorrere da dietro il grigio che oscurava il cielo verso ovest, simile a un tuorlo senza albume. Una luce color salmone invase il mare facendo risplendere la coperta gocciolante e illuminando i dorsi delle onde ‒ le quali tentavano di  strappare l’ultimo strallo che teneva ancora in piedi il moncone dell’albero. Ma durò solo qualche minuto, poi il buio fagocitò il giorno come un male incurabile. Ormai la sentina era già per metà allagata e il resto dell’albero, disteso tra un groviglio di cavi e cime, giaceva irrequieto sul ponte come un tronco spezzato dal fulmine. Solo un pezzo di vela di trinchetta era ancora integra, e solo quella pezzuola mi permetteva di non ingavonarmi a ogni imbardata. Mi avevano abbandonata lì, in mezzo all’oceano, senza neanche pensarci su due volte. Si erano catapultati nella zattera di salvataggio senza girarsi nemmeno per uno sguardo, una parola…

Me n’ero accorta subito, appena li vidi salire a bordo: calpestavano il ponte con le loro scarpe antiscivolo nuove di zecca da mille euro e le valigie semirigide trascinate sul teak appena passato d’olio. Partiamo subito, dissero. Avevano fretta di mostrare le loro capacità marinare. Appena usciti dal porto, cominciarono a stappar bottiglie e a ingozzarsi di salumi e formaggi; dopo un’ora erano tutti distesi sul paiolo a vomitarsi addosso.

 La mattina dopo uscirono dal limbo e qualcuno avviò un discorso sull’anima:

«Io non ci credo», disse il losco

«Io sì, forse… », rispose quello basso.

«Io sono agnostico», blaterò quello con la barba.

«Io penso che tutti abbiano un’anima: gli animali, le piante… anche gli oggetti!», intervenne il quarto.

Le risate dei tre furono invadenti e fragorose, nella serenità dell’aria.

«Che ne sapete voi dell’anima? Non conoscete neanche il significato!»

«Ah, allora diccelo tu il significato professore!», Disse il losco.

«Aristotele diceva che è la parte spirituale dell’uomo, c’è ma non si vede, come l’aria il vento. Difatti Ânemos in  greco significa soffio, vento, respiro… »

«Ahahahah… allora stiamo navigando nell’anima secondo te e Aristotele?» Intervenne quello con la barba.

«Forse è Aristotele che ci respira contro?» Disse il basso senza convinzione.

«E quando piove ci sputa addosso! Ahahahah… » Intervenne il losco.

Andarono avanti così per un bel pezzo, mentre io mi preoccupavo della rotta…

Alla fine fu il losco a chiedermelo, con quella luce maligna che aveva negli occhi:

«Ehi, barca, hai l’anima?»

Non risposi, come potevo?

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ODISSEINA

   E fu così che l’Uomo di Pasqua decise di andare nella patria di Ulisse.

Salpò dalla città dei fiori, nella terra dei liguri, lungo la costa italica. Ci vollero ventun leghe per arrivare, al culminar del vespro, in quel di Genova.  Diede volta alle funi, pagò quarantadue pezzi d’oro e si mise in cerca di una bettola. Dopo aver saziato l’appetito, passeggiò per il vecchio scalo, in cui giocolieri, funamboli e venditrici di eros  facevano da contorno. Dopo un po’ tornò a bordo, si distese nel giaciglio e si affidò a Morfeo.

Il bagliore dei primi raggi di luce lo colsero che aveva già mollato le funi da una buona lega e aveva diretto la prua lungo il litorale. Eolo non si era fatto ancora vivo e lui era costretto a navigare con il Dispositivo a ingranaggi. Dovette usarlo per tutte le ventitré leghe, fino all’arrivo nel Golfo dei Poeti, il cui centro abitato sta al nome di La Spezia.

Navigò, cosi per molte leghe fino a giungere nell’isola di Elba, dove si fermò qualche dì. Là entro in possesso di un cavallo a due ruote con cui fece il giro dell’isola, ammirando la bellezza del posto. Dopodiché puntò la prua verso riva, ma fu un errore: là fu preda della Cala della Galera che gli rubò cinquantotto pezzi d’oro e non gli permise neanche di pregare il dio Web. Da quel momento la buona stella dell’uomo di Pasqua iniziò lentamente a scolorire.

L’inizio del giorno era passato da un po’, quando, improvvisamente, il suono del Dispositivo a ingranaggi diventò incostante. Che cosa sarà? Chiese al cielo.

” Puliscimi il filtro ”, si sentì dire.

” Chi è che mi parla? ”

” Sono il Dispositivo a ingranaggi ”.

” E come si fa questa cosa? ”

” Devi sbarcare sulla terra e invocare un dio Meccanico ”.

” Grazie Dispositivo a ingranaggi, sarà fatto ”.

Si volse verso la terra etrusca e sbarcò nella Santa Marinella. Là pregò un dio Meccanico che si materializzò solo il mattino seguente. Le sembianze di questo dio non erano esattamente etrusche, tantomeno mediterranee. Poi seppe che non era un dio, ma un semidio Meccanico proveniente dalla lontana terra, tra i due fiumi, oltre il sorgere del sole. Versò quaranta pezzi d’oro e riprese il mare. Improvvisamente Eolo scatenò la sua ira, forse per gelosia o forse per rabbia, non lo seppe mai. Provò ad avvolgere la vela di prua, ma invano; e dopo alcuni tagli e qualche colpo, riuscì a liberar la fune dall’albero e la velatura cadde.

Giunto nella città di Nettuno, signore del mare e delle acque italiche, s’incamminò per le vie alla ricerca di una bottega che gli fornisse armamentario necessario per proseguire il viaggio, oltre a pane, vino e provvigioni. Trovò un desco ben fornito e fece acquisti.

La scia del naviglio si allungava lega dopo lega. Superata, indenne, la montagna di Circe (ormai la porchetta la fanno ad Ariccia), era in vista dei natii lidi. Fu all’inizio del golfo di Puteoli che il Dispositivo a ingranaggi cessò di girare. “E ora che succede?” Invocò ad alta voce l’Uomo di Pasqua. La domanda non sortì alcuna risposta. A quel punto capì che il Dispositivo a ingranaggi era privo di vita. E fu così che Il naviglio, privo del Dispositivo a ingranaggi, e in assenza di Eolo, fu preda delle onde cagionate dalle imbarcazioni degli abitanti del golfo di Puteioli e del golfo di Neapolis, che nei giorni di Venere e Saturno, dell’equinozio d’estate, si dilettano a crear marosi e frangenti, spostandosi, ad alta velocità, tra la terra ferma e le isole. Per buona sorte il naviglio derivava lontano dall’Averno: dove si trova il regno dei morti di chitemuort.  Dopo aver reso omaggio agli dei, finalmente Eolo gli inviò un po’ di Maestro, così poté issare la velatura e continuare verso la sua destinazione. Giunto, dopo molte ore, nei pressi di un ricovero per navigli, fu traghettato all’interno; grato alla buona volontà di un compagno di vela. E fu lì che disse:
“Mi serve un dio di Meccanico!”

Fu grazie al canto di una sirena che prese forma un dio di Meccanico, il quale, forte nelle sue arti, fece risorgere il Dispositivo a ingranaggi. Alla fine, dopo aver chiesto come obolo quattrocentocinquanta pezzi d’oro, sentenziò:

” Stai attento Uomo di Pasqua che il Dispositivo a ingranaggi ti potrà creare altri problemi, perché è malato e ha qualche travaso ”.

” Ti ringrazio dio Meccanico e ho apprezzato la tua assistenza, ma voglio andare nella terra di Ulisse ”.

Lasciò l’ormeggio e, costeggiò il golfo delle sirene ‒ le quali erano rimaste senza voce per l’eccessiva umidità ‒, ma una riuscì a saltare a bordo: era una sirena del golfo di Neapolis, che aveva ancora un po’ di fiato nella gola e lo convinse (cantandogliene quattro) a condividere un pezzo di traversata insieme. Così l’Uomo di Pasqua, tenendosi legato all’albero saldamente, discese la costa della Lucania fino al villaggio di Maratea, in compagnia della sirena.

 Dopodiché puntarono verso l’isola di Eolo, per incontrarlo e chiedergli la ragione per la quale non si faceva più vedere da qualche tempo. Ma furono vane le suppliche e le preghiere al dio: non era in casa. Forse perché l’isola stromboliava abbastanza in quel periodo, chissà.

Improvvisamente la sirena, con un tuffo elastico, lasciò il naviglio e si allontanò al richiamo della sirena genitrice; la quale aveva problemi di salute.

Così l’Uomo di Pasqua, si riempì un otre di vino, una sacca di capperi e si allontanò verso Scilla e Cariddi; sempre in mancanza di vento. Abbandonatosi alle correnti, che in quelle ore erano favorevoli, attraversò lo stretto passaggio tra la terra italica e l’Isola del Sole e sbarcò a Reggio di Calabria. Fu là che la schiena gli venne meno. La ricerca di un rimedio diventò impegnativa, ma alla fine trovò il medicamento giusto; solo che dovette inocularselo da solo.

Ormai navigava lungo la Magna Grecia. La meta era prossima. Fece una sosta a Roccella dello Ionio, ivi c’era un ricovero per navigli ben attrezzato e ben tenuto. Dopodiché si diresse verso l’antica città di Kroton, vi sostò una notte e si sfamò di pesce fino a scoppiare. Poi la bianca Leuca, nel cui abitato già conosceva una famiglia che gli offrì ospitalità, cibo, dolci e libagioni in abbondanza. Salutati gli amici, salpò verso levante. Si fermò a Fanò e poi a Merlera, e infine nell’isola dei Feaci. E lì gli dei lo abbandonarono per sempre: il Dispositivo a ingranaggi iniziò a tossicchiare senza sosta.

” Cough, cough… cough…

” Che ti succede Dispositivo a ingranaggi? ”

” Non mi sento… cough… bene.”

” Che hai, esattamente, Dispositivo a ingranaggi? ”

” Non lo so… mi sento stanco e giro con difficoltà… cough! ”

” Adesso riposati Dispositivo a ingranaggi, pregherò un dio meccanico che venga a curarti ”.

L’Uomo di Pasqua, sbarcò in quel di Gouvia, dove c’era un buon ricovero per navigli, ma costava cinquanta pezzi d’oro al dì. In più quel posto era sottomesso al popolo teutonico che si era impossessato di quasi tutti gli attracchi Ellenici. Era preparato per quell’evenienza, sapeva a chi rivolgersi nel momento in cui il Dispositivo a ingranaggi avrebbe ceduto. S’inginocchiò e si preparò a invocare il dio Mc Giver, che in quel periodo dell’anno navigava in zona. Il dio Mc Giver gli inviò un messaggero SMS, il quale gli disse di dirigersi a sud est per quaranta leghe, esattamente nell’insediamento di Preveza dove lo stava aspettando un bravo dio Meccanico. Mentre navigava lungo l’isola dei Feaci, sentì chiamare il suo nome:

” Uomo di Pasquaaa ”

” Chi è che mi chiama? ”

” Sono io, Atena, dea della saggezza e dell’ingegno. ”

” Che cosa vuoi da me Atena ”

” Torna indietrooo, torna nella tua terraaa. Qui sei straniero in terra straniera, verrai tartassatooo ”.

” No, Atena, io devo navigare nella terra di Ulisse ”.

” Non lo fare, torna nei tuoi lidi, là conosci molti dii di Meccanici, rimanda la tua avventuraaa… ”.

” No, non voglio. Ormai è troppo tardi. Ho deciso di navigare, di conoscere altre terre, di esplorare altri mari… niente e nessuno mi farà cambiare idea! ”

” Sei un testardooo… Io ti ho avvertitooo, poi sono cazzi tuoiii ”.

Rimasto solo con i suoi tormenti , l’Uomo di Pasqua navigò quaranta leghe e al nuovo dì giunse in quel di Preveza. Inviò un messaggero SMS al dio Meccanico, il quale si materializzò il giorno dopo. Fu difficile comunicare con il dio Meccanico, ma grazie a gesti, segni e parole in lingua britanna l’Uomo di Pasqua riuscì a capire. Siccome la lingua era arcaica, per agevolare la lettura, vi sarà offerta traduzione:

” Dio Meccanico che cazzo ha il  D.I.¹?”             

” Il tuo D.I. è molto malato, deve essere tolto dall’alloggio e rigenerato completamente.”

” Azz… e quanto mi costa ‘sta tarantella²? ” 

” Ti costa circa settemila pezzi d’oro ”

” Alla faccia… Non mi puoi fare un po’ di trattamento³? ”

” Già te l’ho fatto: nel costo ho calcolato il varo l’alaggio e la sosta a terra, che sarà almeno di quindici giorni ”.

Dopo il trascorrere di mezza luna, si palesò il dio Mc Giver, che conosceva bene le arti dell’ingegneria, della nautica, della velica e della metallica, oltre a conoscere quattro cinque idiomi diversi. Individuò alcuni difetti nel naviglio, che dovevano essere assolutamente riparati, consigliò alcune attrezzature da aggiungere e gli costruì un tetto bimini con metalli riciclati, tutto per quattromila pezzi d’oro. Passarono due lune e finalmente il naviglio era tornato come nuovo (?). L’Uomo di Pasqua, alleggerito di undicimila pezzi d’oro più quelli necessari per nutrirsi, decise che ne aveva abbastanza della terra di Ulisse, e volse la prua a ovest, verso il grande mare oceano. E mentre ripercorreva rotte conosciute, pernottò, di nuovo, in quel di Roccella dello Ionio e lì, il Dispositivo a ingranaggi ebbe un piccolo mancamento. Invocò un altro dio Meccanico che individuò subito il problema, non era niente di grave, ma quell’avvenimento fiaccò definitivamente l’Uomo di Pasqua che inviò tanti di quei muort, chitemurt e chitestramurt che il regno dell’Ade tremò tutto, la terra si scosse, le foreste bruciarono, le montagne si aprirono, i fiumi si prosciugarono i mari si ritirarono e  fu così che il naviglio rimase in secca per sempre.

¹ D.I.: Dispositivo a ingranaggi – ²tarantella: lavoro, servizio –  ³trattamento: sconto (ndt).

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AERO CRUCIS

Si trovava nell’aeroporto di Roma, dal momento che  la zona del pianeta in cui doveva andare  non era esattamente emancipata, aveva deciso di affidarsi a una agenzia di viaggi. Mentre attendeva l’imbarco per Amsterdam, squillò il telefono:

«Buongiorno signor Navigatore sono Sandra dell’agenzia Globo, purtroppo le devo comunicare che il volo Bali-Dili è stato cancellato. Ci stiamo attivando per trovargliene subito un altro. Ci dia qualche ora di tempo e le comunicheremo il nuovo volo.»

«Qualche ora? Ma lo sa che tra un po’ mi imbarco per Amsterdam?»

«Sì, signor Navigatore, lo so. Stia tranquillo, stiamo monitorando attentamente il suo problema, la chiamo appena ho novità.»

«Ma… », ma dall’altra parte c’era il vuoto siderale.

L’ultima volta che era stato ad Amsterdam aveva i bulbi del cranio in piena attività eruttiva e una mezza dozzina di lustri in meno, si trovava là con un amico, in macchina, diretti a Capo Nord; si fermarono per assistere alla Tall Ships’ Race: un raduno di navi scuola e barche d’epoca nei corsi d’acqua che abbracciano la città. Il ricordo gli si collocò nella mente come una vecchia diapositiva proiettata su un muretto di pietre a secco: irregolare, scolorita, fuggevole…

L’aeroporto di Amsterdam sembrava una zona di guerra: polvere, indicazioni insufficienti e transenne con piccoli cantieri aperti un po’ ovunque. Recuperò il borsone e si avviò lentamente verso il gate. Si erano fatte le nove, in quella tiepida serata settembrina contrassegnata anche dalla irregolarità dell’impianto di aria condizionata dell’aeroporto. L’agenzia ormai era chiusa e lui doveva affrontare più di sedici ore di volo, con una breve tappa a Dubai. Si trovò un posto a sedere e cercò di dare colore e regolarità al ricordo della Tall Ships’ Race, in attesa della partenza verso mezzanotte.

Dopo aver letto per alcuni milioni di volte “LIFE VEST UNDER YOUR SEAT”, l’aereo toccò la pista dell’aeroporto di Bali. L’impatto con l’isola non lo sconvolse più di tanto, il traffico e le migliaia di motorini che sfrecciavano sia a sinistra sia a destra del traffico lo fecero sorridere, da buon napoletano c’era abituato. Ma fu un sorriso breve perché aveva da risolvere due grossi problemi: uno, mettersi in contatto con l’agenzia; due, mandare un messaggio ad Antonio che lo aspettava.

«Signor Navigatore, ci dispiace, il volo Bali-Dili al momento non c’è. Deve sapere che tra l’Indonesia e Timor Leste c’è ostilità e la compagnia di bandiera Indonesiana non ha ancora avuto il nulla osta dal governo per rinnovare il contratto per la rotta Bali-Dili. Dovrebbe pazientare… ».

«Scusi Sandra, pazientare quanto? Un’ora, un giorno, una settima, un mese… ».

«No signor Navigatore, non saprei quanto… stiamo monitorando… ».

«Sandra! Mentre voi monitorate dietro i monitor io sto bloccato qui a monitorarmi le mani mentre fanno girare i pollici, ha capito?» A quel punto toccò a Sandra sentire il vuoto siderale dall’altra parte della cornetta.

Ormai la situazione era chiara come il bianco d’uovo: doveva sbrigarsela da solo. Inviò un messaggio ad Antonio spiegandogli brevemente il problema. Antonio gli suggerì di provare ad arrivare dalla parte indonesiana a ovest di Timor. Prima però doveva capire su quale territorio si avventurava. Accese il tablet e cominciò a cercare nel web.

” Distante trecento miglia marine dall’Australia, l’isola di Timor fa parte dell’arcipelago delle piccole isole della Sonda. Divisa in due stati: a est Timor Leste, ex colonia portoghese e a ovest Timor ex colonia olandese, ora sotto bandiera indonesiana…  

 Atambua, il centro abitato più vicino al confine aveva anche l’aeroporto, ma c’era solo un volo settimanale che partiva da Kupang il giovedì alle dieci del mattino. Era mercoledì, doveva trovare un volo Bali-Kupang subito. Due ore dopo era di nuovo nell’aeroporto di Bali, inviò un messaggio ad Antonio e salì sull’aereo.

Ormai era buio, prese un taxi e si fece portare in un albergo nei pressi dell’aeroporto. Chiese alla receptionist di svegliarlo l’indomani alle sette e salì in camera, ricordandosi che non aveva toccato cibo da ventiquattro ore. Dopo una porzione di riso che sapeva di verdure e di verdure che sapevano di riso, al ristorante dell’albergo, tornò in camera. Fu lì che il Jet lag gli ricordò che non era il momento di dormire…

Le nove e venti! Si catapultò dal letto, s’infilò gli short senza mutande, le infradito nell’inframignolo e si fiondò lungo le scale. Alla reception, con un inglese più gesticolato che parlato (anzi gridato), inveì contro il receptionist che, investito dalla tempesta, cercò riparo sotto il bancone. Si tuffò in un taxi e chiese all’autista di diventare daltonico ai semafori, sordo ai fischietti e tenere l’acceleratore incollato al pianale. Fu fortunato, il volo era regionale e un po’ in ritardo: alle dieci e venti s’imbarcò.

Dopo aver letto alcune centinaia di volte BAJU PELAPUNG ADA DI BAWAHKURSI, l’aereo toccò terra. Intanto ricevette un messaggio da Antonio il quale diceva che aveva fittato una macchina e lo stava raggiungendo al confine.

Aeroporto di Atambua: uno stretto nastro d’asfalto dritto in mezzo alla boscaglia, dove il calore e l’umidità si dividevano equamente la gestione termica del posto. Dove, all’uscita, un piccolo spiazzo faceva da zona di carico e scarico. E dove la parola “taxi” non era stata ancora inventata.  Mentre si guardava intorno sentì un rumore di serrande, si girò e vide che l’aeroporto stava chiudendo. Il suo era stato l’ultimo e l’unico volo della giornata. Ora doveva cercare un mezzo per raggiungere la frontiera distante trenta chilometri. Non ci volle molto, lo trovarono loro: quattro uomini e un minibus. Trattò il prezzo, per lui conveniente, e per i quattro abbastanza da dar da mangiare per due giorni le rispettive famiglie. E tra strade sterrate, buche, scorciatoie lungo i campi, musica assordante e oltre un pacchetto di sigarette respirato passivamente lo liberarono al confine. Ultreia, Suseia, Fisterra?¹ No!

Dopo qualche tentativo di corruzione, il doganiere, nel suo inflessibile e granitico atteggiamento ‒ forse l’unico in tutto il sud est asiatico ‒, gli disse per la terza volta che per passare il confine doveva avere il visto di uscita fatto a Giacarta o a Bali. L’unica umana concessione che poteva fargli  era di lasciarlo andare dall’altra parte per qualche minuto, ma trattenendogli il passaporto. S’incamminò con il borsone nella terra di nessuno per almeno cinque seicento metri a incontrare Antonio. Scambiarono poche parole e un po’ di cose che aveva portato con sé e che servivano ad Antonio, poi si separarono verso i rispettivi confini. Ringraziò il doganiere, recuperò il passaporto e si allontanò gravato dal peso del borsone e della sconfitta. La frontiera non era trafficata, ci volle un po’, ma riuscì a ingaggiare due uomini con due motocicli, uno per lui l’altro per il borsone. Dopo aver sfamato anche le famiglie dei due con una congrua cifra, si fece portare al centro di Atambua, dove, da informazioni ottenute dai due centurioni, c’era un bus che partiva per Kupang .

Il macadam serpeggiava su dossi, nelle curve in salita, in discese repentine e tratti di boscaglia costeggiati da radure, una delle quali venne utilizzata per una sosta forzata dovuta al  surriscaldamento del radiatore e ai bisogni fisiologici dei passeggeri. Ormai si era fatta mezzanotte, l’autista ebbe pietà e lo lasciò direttamente all’aeroporto.  Il volo successivo, per Bali, partiva alle nove del mattino; comprò il biglietto su internet e si rifece la spina dorsale allungato sul pavimento (ormai era a terra in tutti i sensi). Dormì un po’e altrettanto sognò:  Cotiche a forma di aereo masticate da un vecchio senza denti, gate di marzapane coperti di canditi, distributori di acqua dai quali zampillava solo tempo…

L’aereo era zeppo e la temperatura alta. Lui si chiedeva come facesse il tizio a fianco a resistere: indossava un giaccone imbottito come una trapunta, oltre a uno smartphone per ognuna delle mani (Chissà se fosse nato con tre o quattro braccia, si chiese), due grossi anelli d’oro che guarnivano altrettante grosse dita e una catena al collo che era così doppia da trattenere un molosso. Aveva deciso di prendersela con tranquillità: lo stress degli ultimi giorni era stato forte, doveva assolutamente entrare in fase zen. Per cui si guardava intorno analizzando l’ambiente e la gente che lo circondava.

Bali era molto trafficata, la zona di Kuta, poi, era piena di vita a qualsiasi ora: alberghi di lusso, catene di ristoranti famosi, bancarelle con la solita paccottiglia rigorosamente cinese e altro…

“HEI SIR, VIAGRA, CIALIS, WOMAN, GIRL, MAYBE BOY?”

Si era sentito con Antonio il quale gli aveva spiegato com’era la situazione politica tra Indonesia e Timor Leste. Quel bel po’di antica tensione faceva si che i voli della compagnia di bandiera indonesiana, per Dili, fossero autorizzati periodicamente e che era meglio cercare il volo tramite un’altra compagnia aerea. Oltre ciò, gli disse di sbrigarsi perché non poteva aspettarlo ancora per molto.

La spiaggia di Kuta era lunga e ne approfittava per fare altrettante passeggiate, mentre scandagliava il web alla ricerca di un volo, la fase zen stava per crollare, era quasi andata a farsi fottere… 

SRIWIJAYA AIR FLIGHT BALI INTERNATIONAL AIRPORT  NGURAH RAI (DPS) TO DILI INTERNATIONAL  AIRPORT PRESIDENT NICOLAU LOBATO (DIL) DEPERTURE  10:45.

ULTREIA SUSEIA DILI!

Antonio era fuori che l’attendeva «Dai sbrigati, sono cinque giorni che ti aspetto!». Gli presentò Sabele, montarono su un taxi e si diressero al porto, salirono a bordo, salparono l’ancora e puntarono a ovest: pronti ad attraversare l’oceano Indiano.

¹ Ultreia, suseia, Fisterra: Forza, resisti, più avanti finisce il cammino. Viene usato dai pellegrini che fanno il Cammino di Santiago e proseguono fino a Finsterra.

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Fitzroy

Fitzroy El Chalten

     I cespugli le schiaffeggiavano il viso, mentre avanzava con forza riparandosi la testa con le braccia; ogni tanto i capelli le s’impigliavano in qualche ramo ed era costretta a fermarsi per districarne l’intreccio. Aveva le gambe graffiate e rimpianse, ancora una volta, di non aver messo i pantaloni lunghi quella mattina, ma la giornata era serena e faceva caldo. Si fermò a una biforcazione con al centro un vecchio albero inclinato: segno che  il vento lo teneva costantemente sotto continue raffiche. Era indecisa se prendere a destra o a sinistra; notò che il sentiero a destra degradava lentamente e l’imboccò senza neanche starci molto a pensare.

Come aveva potuto fare un errore così madornale? Perché aveva deciso di ridiscendere la montagna attraverso il bosco e non lungo il sentiero principale? Anche se quell’uomo sembrava che la seguisse a distanza. Perché era convinta che avesse strane intenzioni? Quello sguardo non le piacque, c’era qualcosa in quegli occhi che le fecero venire i brividi: occhi malefici, bramosi…

Si convinse che la scelta di prendere per il bosco era stata giusta. Ma la vegetazione era così fitta che a stento ci passava la luce. La luce… ancora per poco: il crepuscolo si approssimava ed era piuttosto veloce in quella parte del globo. Eppure quel lato della montagna sembrava così facile e il bosco così  invitante e sicuro che non le passò neanche per la testa il sospetto di potersi smarrire.

Era stanca, camminava dall’alba; si era fermata in vetta solo mezz’ora, il tempo di fare le foto. Dio, quante ne aveva fatte di foto. Un’infinita! Ma era un’occasione da non perdere: cielo terso – anche se veniva chiamata la montagna che fuma per le frequenti nubi che si addensavano sulla sommità –  il ghiacciaio che brillava degradando sul lago e quel picco incredibile e maestoso, tutto là, davanti ai suoi occhi incantati. Un mese prima non ci avrebbe mai pensato di trovarsi in quel luogo straordinario, sola, a migliaia di chilometri da casa.

Si era fermata dal giornalaio  come tutte le mattine per acquistare il quotidiano e lo sguardo le cadde su quella rivista che splendeva con la sua singolare patinatura che profumava di stampa fresca. La foto mostrava un picco riflesso su un lago magico. La mano partì senza ricevere nessun tipo di impulso e agguantò la rivista come se fosse l’unica copia esistente al mondo. Prese la metropolitana, si aggrappò al palo al centro della piattaforma davanti alla porta e inizio a sfogliare la rivista avidamente. Arrivata a destinazione aveva già deciso dove sarebbe andata in vacanza il mese successivo. Passò la giornata chiusa in se stessa a far diventare le immagini di quella rivista un qualcosa di tridimensionale, aiutata anche da alcune ricerche fatte su internet nella pausa pranzo. Uscita dal lavoro si diresse velocemente in un’agenzia di viaggi prima che chiudesse, sedette davanti all’impiegato e con un largo sorriso gli mostrò la foto della rivista. Tornò a casa con un voucher in più e con duemila euro in meno sul conto corrente, ma era felice.

Le ombre si allungavano lente ma inesorabili, aumentò il passo come se volesse sfuggire alla notte che si apprestava a coprire la Patagonia. Il picco del Fitz Roy ormai non si vedeva più e lei non sapeva ancora se imboccando quel sentiero aveva fatto la scelta giusta. Ripensò all’albero che aveva incontrato qualche ora prima e calcolò che se il vento spirava dalle vette e  l’albero era inclinato verso sud, prendendo a destra, allora… La rivelazione fu come un pugno nello stomaco che le tolse il respiro e la fece inchiodare lì ferma e con le lacrime che le scorrevano sul viso tormentato dai graffi: aveva sbagliato strada! Cadde in ginocchio con le mani sulla faccia, avvinta dalla disperazione. La luce ormai era calata e i primi suoni notturni iniziarono a invadere il bosco. Si rialzò titubante e ritornò sui suoi passi: aveva visto una specie di piccola radura poco prima e decise di raggiungerla per passarci la notte. Il freddo le mordeva le carni già da un po’ quando uno strano rumore si fece strada nella fitta boscaglia. Una sagoma scura le si materializzò davanti, riconobbe l’uomo dall’odore di fumo misto al sudore che emanava. Si ritrasse contro un tronco caduto, sperando di diventare invisibile. L’uomo diede fuoco alla torcia, il cui bagliore la investì in pieno e il terrore la pietrificò lasciandola inerme. L’uomo cominciò a parlarle in una lingua mai udita; con una tono di voce basso, roco, come una cantilena ipnotica. Lei iniziò a retrocedere e superò il tronco senza mai dargli le spalle. L’uomo avanzò continuando a parlarle in quella lingua sconosciuta, mentre lei continuava a indietreggiare. Finché uno spuntone di roccia non le bloccò la ritirata. A quel punto l’uomo le artigliò le caviglie, lei cercò di divincolarsi vibrando calci come un’indemoniata, ma l’uomo era più forte: le diede un schiaffo e la fece sbattere contro la roccia. Ormai, stordita, era là là per perdere i sensi. Senti che l’uomo le allargava le gambe, strappandogli gli short. Lei, inebetita, cercò di difendersi artigliandogli il viso più volte e ficcandoli le unghia negli occhi. Il grido di dolore dell’uomo attraversò tutto il bosco, ma la reazione fu immediata: un pugno in pieno viso la fece risbattere contro la roccia e perse i sensi.

Il piccolo ospedale di El Chalten  era una struttura in legno di settanta metri quadri e non era molto attrezzato, era solo un presidio per eventuali incidenti in montagna, i casi più gravi venivano trasferiti a Santa Cruz, a quattrocento chilometri. Era gestito da un medico e una infermiera. I due erano sul portico:

” Come sta l’italiana?”, chiese l’infermiera.

” Stamattina l’ho visitata: sta migliorando.”

” Madre de Dios, che avventura… “, ribatté la donna.

” Per fortuna che quell’ infame non è riuscito a portare a termine il suo piano. Se Pedro e Carlos non si fossero trovati lì…

” Ma come è andata esattamente?”

” Si era fatto buio e i ragazzi avevano deciso di attraversare il bosco per scendere più presto a valle. Improvvisamente hanno sentito gridare e si sono diretti da quella parte, poi hanno visto la luce di una torcia e la sagoma dell’infame che stava sopra di lei. Lo hanno bloccato e legato a un albero. Poi hanno chiamato le guardie e sono scesi a valle con la donna, lasciandolo là.”

” Ma lui chi è, lo conosci, dottore?”

” È uno che si aggira da queste parti. Dicono che sia un Fuegino”

” Ma i Fuegini sono estinti da tempo, possibile… ?”

” Non lo so, il fatto strano è che quando sono tornati era scomparso, hanno trovato solo la torcia. Il problema è che la torcia non è elettrica, è una vecchia torcia di legno con le testa di sego”

” Vergine Santa… che storia strana. Per fortuna che lei ha gridato.”

” No, non è stata lei ha gridare, è stato il Fuegino.”

” Come? Perché non ha gridato?”

” È muta.”

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Garbage watching

Venite, venite, accomodatevi; prendete posto a bordo. Basterà appena uscire dal porto e già comincerete a vedere i più begli esemplari della nostra zona. Prego signora prenda posto che si parte…

Ecco, guardate alla vostra destra: un branco di bottiglie, della razza PET, che si dirigono verso il largo; alcune hanno più di trent’anni e sono giovani per la loro età. Là, guardate, a pelo d’acqua, due bellissime buste della spesa; una verde e l’altra azzurra. Quelle sono stanziali ‒ me le ricordo da piccolo. Invece alla vostra sinistra potete ammirare alcuni accendini dai colori sgargianti, e quelli, vi garantisco, non perdono mai la luminosità cromatica, neanche dopo un secolo. E osservate anche la vasta varietà di mozziconi, preservativi, assorbenti, pezzi di polistirolo, lattine… che dire? È un mare vivo!

Adesso ci dirigiamo al largo, per farvi scoprire altri abitatori del nostro mare. Speriamo di intercettare un container, così lo potrete raccontare ai parenti e agli amici; preparate le telecamere!

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Come cani che si annusano

Il film era poco interessante, ma alcune scene erotiche spinsero la mano di Nadia a scivolare sotto il giaccone di lui. Il pene gli s’ingrossò immediatamente, premendo con forza contro la lampo chiusa.  Nadia muoveva la mano con gesti lenti, facendola scorrere leggera sopra il tessuto grezzo e trattenendosi, volutamente, senza tirargli giù la zip. Lui cominciava a muoversi irrequieto: l’eccitamento gli creava dei brividi incontrollati. Quegli scatti si ripercossero lungo il ginocchio di Cinzia che li interpretò come un invito e, inconsapevole, infilò anch’essa la mano sotto il giaccone. Passarono un paio di secondi prima che le dita delle due donne si toccassero e, immediatamente, si ritraessero imbarazzate verso le rispettive posizioni, sopra le cosce di lui. Fu un momento strano: tutto si fermò, anche il film. Nessuna delle due donne si aspettava di trovare la mano dell’altra sotto quel giaccone misterioso. Le dita iniziarono a tamburellare quasi contemporaneamente, studiandosi, cercando di capire cosa fare in quel silenzio marcato dall’inaspettata rivelazione. Fu la mano di Nadia a prendere l’iniziativa allungandosi verso quella di Cinzia: le unghie iniziarono a toccarsi incerte, scorrendo tra gli spazi teneri delle rispettive dita e scivolando lungo le pieghe irregolari della pelle; giravano in tondo con movimenti lenti – come due cani che si annusano. S’intrecciavano accarezzandosi con tocchi leggeri, affascinate dal reciproco contatto; si allontanavano e poi si avvicinavano sulle punte come nei movimenti di danza classica, girando e cercandosi più volte per poi ritrovarsi cariche di nuovo piacere. Quel gioco trasmetteva alle dita un eccitamento intenso, quasi ardente. Erano tocchi lievi, fuggevoli; erano come le mani di un vasaio che accarezza la creta o quelle di un sarto che sfiora il velluto. Continuavano rincorrendosi eccitate, godendo di quel contatto nuovo, diverso, finché le mani non s’intrecciarono in uno stretto abbraccio, finché le vene non palpitarono gonfiandosi e irrorando sangue ai pori che trasudavano stille di piacere; orgasmo puro.

Infine, senza darsi alcun tipo di segnale, le mani ritornarono verso le rispettive posizioni sopra le gambe di lui, lasciando che il gonfiore prigioniero dentro quel tessuto grezzo implodesse solitario.

 

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11.03.2011 – 14:46

 I tonni erano distesi l’uno accanto all’altro sul pavimento lucido. Hiroshi non si era ancora abituato completamente a quelle bestie prive di testa e di coda: gli trasmettevano sempre una sensazione di disagio.   Il sole iniziava a colorare di rosa il cielo, già appesantito da grossi cumuli pregni di pioggia. Hiroshi, appoggiato al raffio, guardava in alto cercando di interpretare nelle nuvole la strana sensazione che lo opprimeva in quell’alba differente. Decise di non pensarci e di spostare gli ultimi tonni non ancora allineati: allungò il raffio e cominciò a trascinarli l’uno accanto all’altro. Il suono lo colse di sorpresa: la sirena iniziò insistentemente a suonare, invadendo l’aria. Al mercato ittico di Sendai, nella prefettura di Myagi, l’asta stava per cominciare. Il vociare dei compratori aumentò gradualmente finché non si trasformò in una folla di grida concitate; finché quel nuovo mattino non passò sulle loro voci.

   Hiroshi arrotolò con precisione il tubo dell’acqua e lo appoggiò al gancio nel muro, si girò e osservò a lungo il pavimento: aveva fatto un buon lavoro e per quel giorno aveva finito; diede un’occhiata all’orologio e decise che era ancora in tempo per una corsa nel parco. Tolse gli stivali e la tuta da lavoro, s’infilò le scarpe da ginnastica e uscì all’aperto. Guardò il cielo, come se si aspettasse chissà cosa. Fece un lungo respiro e si diresse trotterellando sul lungomare. Le strade sembravano più vuote del solito; era come se mancasse qualcosa, c’era un silenzio che gli appesantiva le spalle. Si girò verso il mare: alcuni pescherecci stavano rientrando, avrebbero scaricato il pesce da portare l’indomani al mercato. Intanto il cielo era sempre plumbeo, ma non era quello che lo preoccupava.

   Rallentò la corsa e si fermò in mezzo al viale guardandosi intorno. L’aria sembrava elettrica e una sottile nebbia grigia copriva le colline a nord; guardò verso il cielo, poi il mare, e stranamente gli girò la testa.

   Un rombo sommesso emerse dalla terra – simile al respiro del grande drago. Il corpo di Hiroshi descrisse una breve parabola nell’aria, poi cadde urtando sullo spigolo del marciapiede: il dolore fu lancinante, era certo di essersi schiacciato un paio di costole. La terra si sollevò agitandosi, gli alberi vacillarono come tanti fuscelli e grossi pezzi di muro si staccarono dalle case frantumandosi. Poi l’asfalto si aprì in grosse fenditure, ingoiando tutto quello che c’era in superficie. Il drago stava banchettando con le sue fauci incatramate e fetide. Hiroshi si rialzò, incespicò poi cadde di nuovo, ma riuscì ad allontanarsi carponi aggrappandosi a un monumento. Stette lì, avvinghiato ai piedi di quell’uomo di bronzo che impugnava una katana in una mano e un ventaglio nell’altra, mentre il tremore della terra si mescolava a quello del suo corpo.

L’atmosfera era ormai gravida di fumi che oscuravano la vista e la mente; Hiroshi si girò verso il mare. Vide l’acqua ritirarsi velocemente, come se avesse deciso di andarsene da un’altra parte, e vide emergere nuova terra dove prima c’era solo mare. Il drago adesso aveva sete.

   Il brontolio giunse da lontano, una potenza distruttiva che solo uno tsunami poteva causare. L’onda alta quanto un edificio, s’abbatté lenta ma inesorabile sulla costa, trascinando con sé tutto quello che c’era sul suo percorso: navi, cantieri, pontili e le grosse gru d’alaggio. Attraversò il porto strappando i docks dal suolo che galleggiarono come tante zattere impazzite alla deriva. Invase le strade di fango e detriti sommergendo auto, camion, case… poi vide.

   Vide suo padre chino a curare il giardino, sua madre che gli sorrideva dalla finestra mentre puliva la verdura, vide sua moglie sul treno che si allontanava, che ormai non gli sorrideva più; vide suo figlio che stringeva la mano a uno sconosciuto, vide tanti tonni decapitati; poi vide la sua immagine trascinata da un rigagnolo in un canale di scolo, vide i denti del drago.

Questo vide Hiroshi, nient’altro.

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Vento del nord

Il vento del nord aveva iniziato a soffiare presto quella mattina. Dalle montagne arrivavano spruzzi di neve in direzione del mare.
La lattina ruzzolava rumoreggiando lungo la strada, inseguita da alcuni fogli di giornale, una borsa di plastica di un discount, una busta vuota di pop-corn, un mozzicone di sigaretta e una bottiglia di plastica.

La lattina aveva trovato un ostacolo vicino al marciapiede e si era fermata, mentre gli altri continuarono la corsa. La borsa di plastica iniziò a salire vorticosamente facendo evoluzioni repentine e impennate vorticose, ma andò a impigliarsi in un cavo elettrico sospeso e s’intrecciò nelle sue stesse maniche, rimanendo lì a consumarsi per sempre. Due dei tre fogli di giornale, mulinando dolcemente, s’infilarono in un androne nascondendosi dietro il portone, insieme a qualche sparuta foglia; il terzo si librò in alto scegliendo la via del mare, ma cabrando incappò in una pozzanghera e s’impregnò di fango.

La busta di pop-corn, con ancora qualche residuo di mais malamente tostato, che rumoreggiava lievemente nell’armatura argentata, fu spinta senza pietà verso l’apertura di un canale di scolo inabissandosi nei meandri fognari; e da lì si perse ogni traccia. Intanto il mozzicone di sigaretta si accostò, esausto, lungo il marciapiede mettendosi in posizione verticale – simile a una barca all’ancora – ma  rollava troppo e il vento lo spinse in un’apertura tra due scogli; e fu preda di un granchio. La bottiglia di plastica, ormai sola, saltava e rotolava senza sosta, echeggiando come delle allegre nacchere.

Fu a quel punto che la lattina, grazie a uno sbuffo di vento complice, superò l’ostacolo e iniziò a rincorrere la bottiglia di plastica. Tra i due ebbe inizio una disputa senza esclusione di colpi: la bottiglia di plastica conosceva bene il territorio e percorse strade e vicoli non segnati sulle mappe. La lattina, più piccola e aerodinamica, cominciò a guadagnare terreno e dopo alcune curve già le stava alle calcagna, ma a un incrocio la bottiglia andò a sbattere contro un segnale stradale e si mise a ruotare come una trottola. La lattina, approfittando dell’incidente, la sorpassò e si allontanò risuonando come uno steel drum (sapete, quei tamburi metallici caraibici?). La bottiglia, spinta da una nuova folata, iniziò a roteare e rimbalzare rotolando su se stessa all’inseguimento dell’avversaria. La lattina raggiunse la spiaggia, ma la rotazione le procurò un impedimento inaspettato: la sabbia iniziò a penetrarle inesorabilmente dentro l’apertura a strappo appesantendola sempre di più; gli ultimi e faticosi giri la videro terminare la sua corsa a pochi metri dalla battigia. Nel frattempo la bottiglia raggiunse la spiaggia e, giunta all’altezza della lattina, fece una rotazione su se stessa e, felice, si diresse verso il mare, ma un’enorme mano guantata la ghermì stritolandola e lanciandola in un contenitore aperto. Intanto la lattina, terrorizzata, trasudava gocce color ambra. Poi la sorte colpì anche lei: fu afferrata, schiacciata e proiettata nello stesso contenitore.

E il loro spiriti trasmigrarono in altri oggetti.

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Itineranti

In quei giorni giravamo per le piazze di piccole cittadine di provincia, ma quella domenica decidemmo di restare fermi. Ci sedemmo intorno al tavolo a stappare idee nuove insieme a qualche birra.
Pioveva, forse troppo, il posto era umido e la campagna stava diventando un acquitrino. Non la biasimavo la gente, anch’io sarei rimasto chiuso in casa. Non era una cattiva compagnia la nostra, eravamo tutti abbastanza bravi e abili nelle rispettive discipline, ma indisciplinati nelle rispettive aspettative: troppe teste, ognuna con sogni e bisogni diversi. Certo che tenere incollati in un solo gruppo ventotto persone non era impresa facile. Facevo il clown da tanto di quel tempo che quasi non ricordavo la mia vera faccia. Pensate che quando nacqui mio padre mi appiccicò una pallina rossa sul naso. Animali? No, niente animali nella nostra compagnia, solo persone e qualche nano. Avevamo un alto concetto della libertà, talmente alto che la nostra itineranza si riduceva a un solo giorno di spettacolo per ogni posto. Poi raccoglievamo tutto e ci spostavamo in un altro luogo. Il Nano diceva sempre che gli spettatori ci correvano dietro. Aveva l’abilità di mettersi nei guai in ogni occasione, il Nano. Infatti quella notte, quando non lo vidi tornare, pensai al peggio. Era stata la mia spalla negli ultimi dieci anni, avevamo condiviso tutto, anche il letto. No, non stavamo insieme, per me era come un fratello minore, in tutti i sensi. Anche se ho sempre pensato che il Nano avesse qualche vizietto, era, come dire? Ambidestro, ecco! Ce l’aveva così grosso… esattamente uguale alla forma della pistola fatta con le dita: lui il pollice e il suo coso l’indice. Forse per questo molte donne gli correvano dietro, ma dovevo ancora scoprire il perché lo cercassero anche quei loschi figuri…
Insomma quella notte il Nano non lo vedemmo rientrare e quindi sguinzagliai i ragazzi per tutti i bar e le discoteche della zona.

All’alba smontammo tutto in silenzio, ognuno di noi era chiuso nelle sue opinioni. Conoscevamo bene l’irascibilità del Nano ed eravamo tutti molto preoccupati per lui. Io stesso, in più occasioni, l’avevo tolto dai guai. Ricordo una sera che fece questione con una montagna di muscoli alta due metri. Sapete quei tipi tutte borchie e tatuaggi? Insomma  dopo uno scambio di battute pesanti il tizio gli disse che non l’avrebbe menato solo perché era un nano. Il Nano odiava essere chiamato nano. Ogni volta che sentiva quell’appellativo s’infuriava più di una mandria di tori. Vidi saltare il Nano da fermo –  incredibile come possa un uomo alto un metro e venti, saltare su un bancone alto un metro e cinquanta – armato di una bottiglia piena di ottimo rum e sfracellarla su quella testa pelata grossa come un melone. Ci fu un momento di silenzio che attraversò tutto il locale. Conoscete quel silenzio greve, pesante, quel momento in cui la lingua dimentica la sua attività primaria? Approfittai della situazione, misi il Nano sotto il braccio, e lo portai fuori.

Gli anni sono passati sotto di noi, portandosi via i sogni e qualche capello dal bulbo indebolito. Qualcuno è partito, qualcun altro è tornato, la gran parte è restata. Poi la compagnia s’è sciolta.

E io mi sono lasciato trainare come una macchina sbiellata da finti entusiasmi. Adesso lavoro in una tivù privata. Faccio la pubblicità per un grossista che importa giocattoli dalla Cina. Il Nano, vi chiederete voi? Sì, l’ho rivisto il Nano, proprio stamattina, sulla cronaca nera di un giornale di qualche anno fa. La pagina è stata usata per coprire un buco in uno sgabuzzino adibito a camerino: il mio. Il Nano era steso su un tavolo dell’obitorio; l’articolo diceva che era morto dissanguato con il pene tagliato in due e, stretto nella mano destra, aveva due carte da gioco: la regina di cuori e l’asso di picche.

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Tacchi

 

L’avanzare di tacchi rimbalza tra le pareti dietro l’angolo, mi entra in testa e si espande, come questa pioggia sul marciapiede che dilaga senza ostacoli. Sembrano tacchi da otto.
Forse li ho già sentiti, li conosco, sono sicuro di averli incrociati altre volte. Scavo nella memoria ‒ come quell’ombra laggiù nella spazzatura – buttandomi alle spalle quello che non mi serve. Tacchi da otto, tacchi da otto… sono larghi, sicuro; non a spillo, certo. Sembrano decisi, determinati, conoscono la strada, chissà, l’avranno fatta mille volte ‒ come quel tram che sferraglia scintillando nella notte. Intanto il ticchettio aumenta, si avvicina, poi si ferma: li sento esitare. Il silenzio si fa intenso, l’aria pesante. Improvvisamente girano su se stessi e tornano indietro. Supero l’angolo: la strada è buia; accelerano, li inseguo; affannano…  I battiti del mio cuore aumentano e si confondono con il loro rimbombare veloce intrecciandosi lungo le pareti buie alle mie spalle. Supero un paio di ostacoli aumentando l’andatura. Il sudore comincia a colarmi lungo la schiena, mentre li sento sempre più vicini. Ormai ci sono, manca poco, gli sto addosso… Ecco! Presi! Finalmente le riconosco: sono le scarpe della signora Tilde. Saranno scappate quando avrà aperto la porta.

 

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