Sogni nell’aria

Lo sai come si fa a esorcizzare le paure? Nemmeno io lo so, che di paure ne ho avute tante, e non credere che adesso non ne abbia.  A volte tutto sembra così aleatorio, così incerto, che par d’esser sempre vissuto in questo modo: in questo limbo che m’avvolge cullandomi dolcemente col suono della tua voce. Ti spio da lontano, cercando di carpire i tuoi respiri, di rubarti qualche sguardo distratto, mentre le tue mani dipingono sogni nell’aria, e i tuoi piedi accarezzano il suolo intimidito dai tuoi passi. Sei avvolta nei tuoi pensieri; ammantata da flussi mentali invalicabili. A volte dai l’impressione di cercare la luce dove c’è il buio e non ti accorgi che sei tu la luce; innaffi terreno sterile trascurando i germogli che crescono dentro di te. Ti graffi la mente con vane illusioni, senza anestetizzare le tue paure; e dai l’impressione che di paure non ne hai. Non è così: respingi la mano, ma ti aggrappi allo sguardo. Celi le tue paure dietro mura di sicurezze, circondate da fossati di disinvoltura. Senza accorgerti che le mura sono trasparenti e i fossati piccole depressioni nel terreno.

Vorrei tanto toccarti, per essere certo che esisti veramente. Ma so che un giorno volerai via, e non voglio che tu voli via.

Per il momento lascio i miei pensieri al sole, sperando che mi si asciughino le lacrime.

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Viso di stoffa

Lo so dove sei andata. Ci sei andata altre volte, ma non serve; cerchi di alleviare i tuoi rimorsi chiudendoti in una stanza spoglia di un motel, coperta solo da un misero accappatoio che sembra un saio. Ti vedo, sul bordo del letto a ritoccarti il viso col portacipria di Swarovsky; è la tua natura, la tua essenza, la tua contraddizione. Io so cos’hai dentro, lo percepisco anche a distanza; ti nascondi a te stessa, ti ammanti di finto fatalismo, di responsabilità indotte. Esci da casa sorridendo a tutti e salutandoli con cordialità mentre i tuoi occhi brillano di un’altra luce. C’è un conflitto enorme dentro di te, complicato dalla tua presunzione di poter gestire tutti con il tuo viso di stoffa. Lo hai lavato troppe volte ormai: il tessuto si sgrana, devi indossarne un altro. Puoi comprarne uno nuovo, ma hanno messo i saldi. Saresti uguale agli altri.

Sei misera, ma non sei degna di pietà. La tua anima si perderà, continuerà a vagare finché il tempo cesserà. Sarà la tua nemesi. Mi hai reso schiavo della tua bellezza manipolando la mia mente come un pezzo d’argilla. Hai costruito un vaso e poi l’hai fracassato, riducendolo in mille pezzi. Li sto ancora raccogliendo. Molti sono inutilizzabili. A che serve ricostruirlo…

Neanche lui riesce a essere più misero di te. Lui che cerca di soddisfare il tuo corpo che reclama sesso mentre la tua mente ci gioca; mentre lo soggioghi con le tue malìe. Lui che è convinto di condurre il gioco. Che uomo stupido… Ti sei procurata uno stallone da monta, ma non sa correre: non è di razza. Con lui ti è più facile; la sua intelligenza è inversamente proporzionale alle sue prestazioni fisiche, mi dicesti. E io cercando di fare l’indifferente ti chiesi di cambiarti il vestito, quella sera del ricevimento. Non è importante cosa indossi, ma come lo indossi, dicesti.

Sì, vinci anche in questo: l’indumento non ti veste, sei tu che vesti lui. Nessun uomo ti veste, nessuno uomo ti vestirà mai.

Lui sarà arrivato ormai, starete a letto iniziando la vostra danza di guerra. Anche questo me l’hai detto tu. I preliminari sono come una danza di guerra intorno a un grande falò di passioni. Ricordi? Eravamo in macchina. Parlavi e il falò si rifletteva dai tuoi occhi, mentre dentro di me un rogo bruciava inarrestabile. Non risposi: avevo paura che smettessi di raccontarmi di voi due. Dopo un po’ passasti ai particolari. Eri precisa nelle tue descrizioni, come se ne stessi parlando con un’amica. Sembravi posseduta da una strana suggestione, ma non del tutto. Mi spiavi con la coda dell’occhio cercando di capire se mi stessi eccitando. Un gioco malefico il tuo. Non contenta, la tua mano iniziò ad accarezzarmi l’inguine. Fermati! Mi dicesti. Accostai e mentre osservavo il traffico notturno saziasti la tua sete nutrendoti della mia sostanza. Quella notte a letto ti cercai. Non adesso, mi dicesti girandoti dall’altro lato.

I giorni passavano sulle nostre vite, c’incontravamo sempre meno in casa, tranne la mattina. Cercavo di non pensarci, mi dicevo che presto sarebbe cambiato. Una sera, un collega di lavoro mi portò in un bar; erano giorni che insisteva. Era un bar di single; sagome scure; uomini e donne disillusi. Lei era simpatica; appena uscita da una storia sgradevole, ed era piena di grandi sogni. Non ricordo come, ma mi svegliai nel suo letto la mattina successiva. C’era un biglietto che mi invitava a rilassarmi come se fossi stato a casa mia e di farmi il caffè. Quando penso a lei mi tornano in mente solo i suoi occhi, occhi limpidi come acqua che scorre.

Dove sei stato stanotte? Mi chiedesti. E io per vendicarmi ti raccontai tutta la verità, tranne i particolari che m’inventai di sana pianta. Il tuo viso s’infiammò, una strana luce si formò nei tuoi occhi da gatta selvatica. Ti avvicinasti e strusciandoti cominciasti a gemere. Lo facemmo lì sulla sedia e poi continuammo nel letto fino a notte inoltrata. Non voglio dividerti con un’altra, mi dicesti alla fine. Andai in bagno e rimasi un po’ a guardarmi nello specchio e quando tornai stavi già dormendo. Era tornato tutto come prima.

Ritornai in quel bar, non so perché, ma ci tornai. Era presto, c’erano solo un paio di persone appoggiate sul lungo bancone. Chiesi al barista se l’avesse vista, ma non ricordava di chi parlassi. Fermai un taxi e mi feci portare a casa sua. Non ricordavo l’indirizzo, ma la zona sì. Una signora mi disse che era partita per l’Africa. Stava realizzando uno dei suoi sogni allora. Passai la notte girando senza meta per la città. Tornai a casa sperando di suscitare in te altro interesse, ma nessuna luce si formò più in quei tuoi occhi da gatta selvatica. Hai passato di nuovo la notte fuori? Mi domandasti, dandomi un bacio sulla guancia. E senza attendere risposta chiudesti la porta alle tue spalle.

Perché non smetti di vederlo, ti ho chiesto stamattina in cucina. I tuoi occhi mi guardavano da sopra il bordo della tazza del tè. Ti prometto che da domani non lo rivedrò più. Da domani.

Sto cadendo dal dodicesimo piano chiedendomi se lo rivedrai anche domani.

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Sul marciapiede

Guardò fuori dalla finestra: i profili delle case iniziavano a formarsi. Linee geometriche che riprendevano il loro posto sullo sfondo del cielo mentre le ombre si diradavano.  Era l’inizio di un nuovo giorno; era la fine di una notte passata a trasformare i pensieri in parole. Chiuse la pagina: OpenOffice gli chiese se doveva salvare la pagina; cliccò su non salvare. Un’altra notte in bianco, un’altra pagina bianca. Distese la schiena e andò a farsi un caffè. Poi una doccia; si guardò nello specchio: c’era dell’ironia nello sguardo che gli rifletteva. Ma era solo una condizione esteriore, lo specchio non sapeva cosa c’era dietro quel viso. Forse neanche lui lo sapeva. Scese nel garage e prese la bici, accese l’iPod e partì. Il cielo era ormai chiaro, di un chiaro azzurro. Il colore gli ricordava un quadro di Hopper, ma il titolo non gli veniva. Si diresse sul lungomare: le prime macchine con gli anabbaglianti ancora accesi s’incrociavano sulla strada deserta. Un senso di desolazione gli riempì la testa: non era amarezza, non era nemmeno tristezza, era vuoto. Era come in una stanza satura di aria compressa, e lui vi galleggiava dentro. Come uno spazio privo di materia, ma colmo di antimateria. Non trovò appigli, vagò per lo spazio limitato da confini che non riusciva a toccare, mentre girava su se stesso in assenza di gravità. Il buio gli stringeva il cuore, incombendo su di lui e le sue paure; rivoltandolo come un calzino. Lo spazio si estese, ma non lo vedeva: lo percepiva. Venne sospinto verso qualcosa che non aveva ancora compreso; qualcosa di intangibile. Una strana consapevolezza gli lambiva appena i confini della percezione. Iniziò a vedere una fievole luce lontana, molto lontana. La corrente lo portava in quella direzione, ma sembrava tremendamente lenta. Provò a muovere le braccia come se volesse nuotare verso quella fonte di luce che, era certo, fosse una specie di porta d’uscita. Un gate verso la realtà. Una strana nenia cominciò a farsi sentire. All’inizio sembrava modulata, armoniosa; poi si sovrappose un insistente e fastidioso suono molesto che gli spaccò i timpani. Ritorno in sé. Era al centro della strada e una macchina lo scaraventò di nuovo sul marciapiede.

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Il mondo è grande

Serro la finestra: mi nascondo al mondo, mi chiudo nel guscio. Sono un paguro. Sono un’ombra proiettata su un muro; ma devo affrettarmi. Vorrei chiamarti, anzi no, vorrei invocarti, vorrei averti… vorrei viverti. Sono roso da una passione incontenibile. Dimmi quale vetta devo scalare; quale oceano devo navigare; quale deserto devo attraversare…

Chiudo la porta, ho la testa bassa, non cerco niente sul pianerottolo, è solo vergogna, vergogna di me. Ho le spalle curve: è un peso opprimente quello che mi trascino. Il peso dei miei pensieri: sono tanti, ormai non riesco più a contarli. Sono una folla che straripa dalla mia mente. Incontenibili, irrefrenabili. Corrono tutt’intorno fino a quando non diventano un unico vortice. Un possente uragano. Sono preso dalle sue spire assordanti.

Vorrei ringraziarti per avermi regalato momenti di delicata illusione, di felice speranza, di sognante aspettativa. Mi accontento, non sono nelle condizioni di pretendere di più.

Eppure…

Devo affrettarmi, il mondo è grande.

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Shark!

Stamattina sulla spiaggia di Marsa Alam, ho intravisto una pinna grigia che si muoveva sull’acqua a poca distanza da un tizio che faceva il bagno. “Shark!” Ho gridato “Shark!” Gesticolando verso il tizio, che mi guardava senza capire. “Shark!” Ho ripetuto, indicandogli alle sue spalle. Ma lui stava lì immobile. Sono entrato in acqua, ho messo le mani a coppa e con tutto il fiato che avevo in corpo ho gridato: “Shaaaark…  sei una testa di cazzo!” Gli ho detto, ormai esasperato.

“Testa di cazzo sarai tu figlio di puttana!” Mi ha risposto il tizio.

Mentre lo squalo si è allontanato offeso.

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La ricarica

Il cellulare squillava già da un po’; l’uomo si svegliò di soprassalto cercando di individuare dove l’avesse messo la sera prima. Poi, finalmente…

«Pronto!» Rispose.

«Ciao, ancora dormi?» Disse la voce dall’altro lato.

«Sì, che ore sono?» Chiese l’uomo posando lo sguardo sulla sveglia digitale, ormai ferma alle 15:38 di qualche settimana prima.

«Sono le dieci», rispose la voce femminile dall’altro lato.

«Caspita! E’ tardi, devo andare», disse lui schizzando fuori dal letto.

«Andare dove? E’ domenica!» disse la donna.

«Lo so, ma devo fare assolutamente una ricarica: non ho più tempo!» Rispose lui concitato.

«E dove? I negozi sono chiusi», chiese lei.

«Troverò sicuramente un negozio di turno aperto al centro: è impossibile che non ci siano», rispose lui – infilandosi la tuta da ginnastica e cercando di tenere fermo il cellulare tra la spalla e la guancia, mentre la gamba cercava la via d’uscita da una braca.

«Sei sicuro di farcela in tempo? Vuoi che te ne presti un po’ dalla mia ricarica?», disse lei ansiosa.

«No, stai tranquilla, ho ancora una mezz’ora abbondante; e in più dieci minuti di opzione ricarica d’emergenza», rispose lui, mentre si infilava le scarpe da ginnastica senza allacciarle.

«Hei! Non voglio essere invadente, ma è possibile che tu debba sempre ridurti a fare le cose all’ultimo momento?» Disse lei.

«Ora devo andare… », rispose lui cercando di troncare il discorso.

«E poi con le ricariche non si scherza, vuoi veramente rischiare di perdere tutto il tempo?» Continuò lei.

«Ciao, ti chiamo dopo», tagliò corto lui, chiudendo la comunicazione.

Scese di corsa le scale avviandosi alla macchina. Il tempo era brutto: grandi nuvole attraversavano velocemente un minaccioso cielo grigio. La pioggia cominciò a cadere pesantemente in grossi goccioloni che rimbalzavano rumorosamente sull’asfalto. Entrò in macchina che era già zuppo d’acqua. C’era molto traffico quella domenica, le macchine si muovevano lentamente – complici le strade allagate dalla pioggia battente. Dopo un tempo indefinito si fermò davanti a un display informativo: le lettere digitali scorrevano velocemente riflettendo nei suoi occhi affaticati. – NEGOZIO TIME DI TURNO IN VIA ALMANACCO,365 – Si infilò in macchina e, senza rispettare lo stop, partì. Giunto all’indirizzo l’entrata del negozio gli fu sbarrata da una barricata di assi in legno, con su appeso un altro display le cui lettere correvano più velocemente di quelle precedenti, creando delle strisce quasi intellegibili color sangue, e sperò che fosse un’impressione dovuta alla sua momentanea condizione d’irrequietezza.

– SI AVVERTE LA SPETTABILE CLIENTELA CHE DA OGGI RESTEREMO CHIUSI PER IL TEMPO NECESSARIO AL RIAMMODERNAMENTO. IL NEGOZIO TIME DI TURNO PIU’ VICINO E’ IN VIA DELLA CLESSIDRA, 60 – Rimontò in macchina e accelerò.

Finalmente trovò il negozio aperto. Posteggiò la macchina in divieto di sosta ed entrò di corsa. C’erano cinque persone in fila prima di lui: era preoccupato, si guardava intorno in cerca di un orologio, ma stranamente non ne vide. Chiese al tizio davanti a lui: «Scusi mi dice l’ora?»

«Ricarica scaduta vero?» Rispose il tizio.

«Sì… mi dice l’ora?», chiese di nuovo lui.

«Le 10:40», rispose il tizio guardandolo con ironia e girandosi, poi, in avanti.

Ormai gli restava poco tempo; doveva fare in fretta se no ci sarebbero state delle complicanze irreversibili. Prese il coraggio a due mani, si schiarì la voce e disse:

«Scusate signori ho fretta, fatemi passare, non ho molto tempo», mentre il corpo cominciava a sentire strane sensazioni di disagio. Tutti i presenti si voltarono verso di lui in un silenzio appesantito da sguardi accusatori. Una vecchietta in testa alla fila lo scrutò da capo a piedi e disse: «Lei crede che noi, invece, di tempo ne abbiamo da spendere, giovanotto? Perché non si è preoccupato prima di fare la sua ricarica? Mi guardi! Lo sa che ho novant’anni e che se avessi vissuto come lei non sarei mai arrivata alla mia età?» Voltandosi di nuovo in avanti. Un freddo sudore iniziò a stillargli sulla fronte, mentre le guance sbiancavano e le mani cominciavano a tremargli: si sentiva svenire.

«Vi prego! Vi scongiuro, sto male… fatemi passare, sto male!… Signorina glielo dica lei!» Chiese lui, rivolgendosi alla commessa che lo guardava attentamente.

«Per piacere fatelo passare, penso che al signore non gli sia rimasto molto tempo a disposizione», disse la commessa preoccupata.

«Effettivamente non ha una bella cera giovanotto! Le cedo il mio posto, anche se è uno scapestrato», ribatté la vecchietta anch’essa allarmata.

Lui si avvicinò a fatica al bancone cercando di sostenersi sulle braccia, intanto che le gambe cominciavano ad abbandonarlo.

«Mi dia la carta di credito», gli chiese la commessa.

Lui si frugò nelle tasche, ma un allarmante consapevolezza lo colpì come un pugno nello stomaco.

«Oh… Dio, n-no! L’ho d-dimenticata a c-casa» disse lui balbettando, non volutamente.

«Incredibile! Come si fa a essere così incoscienti?» Esclamò la commessa.

«La pago io la ricarica a questo dissennato. Forza! Non ho tempo da perdere!» Disse la vecchietta tirando fuori la carta di credito.

«Quanto tempo?» chiese la commessa.

«D-due s-settimane», rispose lui. Facendo una smorfia di dolore sotto forma di sorriso alla vecchietta.

«Mi dia il braccio», ordinò la commessa.

Lui stese il braccio sinistro sul bancone e la commessa gli appoggiò il lettore a barre a metà strada tra il polso e il e l’avambraccio. Il click attraversò tutto il negozio rimbalzando sulle pareti, come un’eco infinita.

Dopo alcuni secondi già si sentiva meglio. Le guance erano tornate del colore naturale e le mani non gli tremavano più.

«Signora non so come ringraziarla, lei mi ha salvato la vita. Mi lasci il numero della sua carta di credito che le restituisco i soldi», chiese lui alla vecchietta, ripresosi completamente.

«Glielo offro io questo tempo giovanotto», disse la vecchietta sorridendo. E poi:

«Che questo le serva da lezione. E si ricordi che il tempo non va trascurato. Glielo dice una che di tempo ne ha consumato molto».

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La valigia

«Buongiorno signore, carta d’imbarco e passaporto prego».

«Ecco, a lei».

«Quante valigie ha, signore?»

«Quattro».

«Quante?… Quattro!»

«Sì, quattro».

«Mi dispiace signore ma la franchigia bagagli è di tre colli».

«Senta signorina io ho bisogno di imbarcare tutt’e quattro le valigie, per me è necessario».

«Signore le consiglio di far entrare tutto il vestiario nei tre colli».

«No, non è possibile mi servono tutti, non posso lasciarli qua… »

«Dovrà farlo signore, diversamente non può imbarcarsi».

«La prego signorina non li posso lasciare qua, ne ho bisogno, senza mi sentirei nudo».

«Perché non elimina qualche indumento?»

«Non posso».

«Perché non può?»

«Volerebbero via!»

«Come volerebbero via?»

«Sì, volerebbero via».

«Scusi signore che razza di indumenti contengono le sue valigie?»

«Non sono indumenti».

«E cosa sono, signore?»

«Pensieri».

«Pensieri? Ma non sono troppe quattro valigie di pensieri?»

«No, io ci tengo alle mie comodità».

«E li deve portare tutti con sé? Non può lasciarne qualcuno a casa?»

«No, ho paura che li rubino».

«Be’ potrebbe ridurre il numero dei pensieri e farli entrare tutti in tre soli colli, non crede signore?»

«No, non me la sento, soffrirebbero troppo: incastrati l’uno sull’altro in uno spazio ristretto e senza luce… no, preferisco tenerli comodi».

«Ma perché,quanto tempo resta fuori, signore?»

«Sei mesi, signorina».

«Non può indossarne qualcuno più di una volta,? Tanto se sono freschi e puliti, possono essere riutilizzati e… »

«No, ne voglio indossare uno al giorno, i pensieri usati non mi piacciono».

«Può comprarne altri in viaggio, il costo non è eccessivo».

«I pensieri in vendita sono polverosi e antiquati, preferisco i miei».

«Senta signore io non posso aiutarla, lei deve assolutamente eliminare una valigia. Tolga la rossa».

«No, la rossa no».

«Perché la rossa no?»

«E’ quella dei pensieri d’amore».

«Allora la verde».

«Neanche, è quella dei pensieri di speranza».

«Quella blu allora».

«Nemmeno, è quella dei pensieri di pace».

«Non resta che la viola. Elimini quella viola allora».

«No! Proprio quella no!»

«Perché proprio quella no, signore? Che tipo di pensieri contiene quella valigia?»

«Emh… »

«Allora? Me lo dice signore?»

«Emh… quella viola non contiene pensieri».

«Cosa allora?»

«Emh… sogni».

«Sogni?! Lo sa che il contrabbando di sogni è punibile con l’arresto immediato? Lei è un folle!»

«Lo so, lo so, ma i sogni sono miei, perché non dovrei portarli con me?»

«I sogni vanno condivisi con gli altri, altrimenti è impossibile che si realizzino. Apra subito la valigia viola e faccia uscire i sogni, in modo che  possano beneficiarne anche gli altri. Si muova!».

«D’accordo, d’accordo lo faccio, ma non ne posso tenere qualcuno per me?»

«Non c’è bisogno: i sognatori come lei possono produrne tanti. Felice volo signore».

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Scandaglio

Le tenebre si allontanano portando con sé gli spettri della notte, ma la luce fatica a prendere completamente possesso del cielo, grazie a questa bruma fitta che avvolge il mondo in una grigia calma ovattata. Il silenzio è rotto solo dal leggero scricchiolio del fasciame. Le vele continuano a sembrare fantasmi addormentati in attesa di un alito di vita che tarda ad arrivare. Sento la fragranza della terra bagnata oltre i vapori umidi, ma la lente del cannocchiale mi mostra solo un muro di nebbia. La notte è stata lunga e insonne per tutti. L’unica possibilità di avanzare, in mancanza di vento, è stata quella di mettere le scialuppe a mare e far spaccare la schiena agli uomini facendoli remare senza sosta.
Il nemico ci tallona da tempo, sento il suo fiato sul collo: siamo riusciti a sfuggirgli grazie allo spirito di sacrificio dimostrato dall’equipaggio. Ma gli uomini sono stanchi, hanno bisogno di riprendere le forze: sono settimane che siamo in navigazione, e da due giorni il nemico non ci molla. La costa potrebbe darci l’opportunità di seminarlo – se solo la nebbia si diradasse quel tanto che basta da individuare un’insenatura adatta per nasconderci. Devo assolutamente trovare un ancoraggio sicuro dove fermarci per riprendere fiato: siamo a corto d’acqua e di viveri. Sento che la terra è vicina, ma non c’è niente di più terrorizzante che essere avvolti dalla nebbia in acque sconosciute.

Un po’ d’aria da est, è il momento buono per accostare. Se ci avviciniamo forse riesco a individuare un lembo di terra adatto. Ho dato ordine di non parlare, qualsiasi manovra va fatta in silenzio. Le vele cominciano ad animarsi, si gonfiano e iniziano lentamente a sospingerci. Guardo in alto e vedo piccole figure che si sbracciano sui pennoni per dispiegare le vele intorpidite dall’inattività. Il fruscìo della tela che si riempie di vita è un canto meraviglioso che ti fa venire i brividi lungo tutto il corpo. L’ambiente si scrolla da dosso i grigi vapori, mostrando un panorama sconosciuto e selvaggio. Finalmente uno scorcio di visuale: una costa scura e vulcanica, con rilievi disseminati di palme. Ecco, il promontorio alla fine di quel tratto di terra bassa potrebbe essere un nascondiglio adatto – sempre che non ci individuino prima. Stranamente la nebbia sembra richiudersi alle nostre spalle: sarà qualche folletto benevolo che ha deciso di aiutarci. Dirigiamo con cautela verso la costa e faccio segno al Secondo di far controllare il fondale, un marinaio lancia a mare la lunga cima dello scandaglio e con la mano mi segnala che non tocca. Siamo ancora in acque profonde, ma è meglio stare attenti.

Continuo a scrutare la costa in cerca di non so cosa, forse in un miracolo. L’uomo allo scandaglio segnala cinquanta braccia, il fondale comincia a salire, faccio segno di diminuire la velatura e di tenerci paralleli alla costa. Una strana spaccatura lungo una parete rocciosa m’incuriosisce, punto il cannocchiale e scruto attentamente il fianco di quella muraglia. Là, sembra un’apertura dentro la roccia, e faccio cenno di dirigere in quella direzione.

L’uomo allo scandaglio segnala quaranta braccia – la parete si avvicina e comincio a intravedere uno leggero squarcio che l’attraversa tutta tuffandosi nel mare. Sembra una sacca, una rientranza. Dovrei mandare una scialuppa a controllare quell’apertura, ma il nemico potrebbe sopraggiungere a momenti e sarebbe rischioso, sarei costretto a recuperare gli uomini in mare e ci beccherebbero in brache di tela. Voglio rischiare – e indico di avanzare lentamente.

L’uomo allo scandaglio segnala trenta braccia: c’è un silenzio che sa di paura, gli uomini evitano anche di respirare. Mi sento osservato da centinaia d’occhi che mi chiedono con lo sguardo a quale rischio stiamo andando incontro. Lo so è un azzardo costeggiare una terra inesplorata, ma tanto vale consegnarsi al nemico.

L’uomo allo scandaglio segnala venti braccia, forse sto chiedendo troppo alla mia buona stella, ma qualcosa mi dice che devo avanzare.

Un residuo di nebbia si disperde svelandomi quello che intimamente speravo più di ogni altra cosa: lo squarcio si allarga; un’ansa nascosta si apre gradualmente mostrando un passaggio stretto, ma attraversabile.

L’uomo allo scandaglio segnala dieci braccia, il fondale comincia a preoccuparmi, faccio cenno al timoniere di dirigere verso il centro dell’insenatura. Le pareti di roccia segnate da millenni di erosione ci ammoniscono incombendo sulle nostre incertezze – sono talmente vicine che sembra stiano per stringerci in una gigantesca morsa di pietra.

L’uomo allo scandaglio segnala cinque braccia, individuo una piccola rada a sinistra e faccio segno di dirigere da quella parte.

Dopo pochi minuti il silenzio viene rotto dall’ancora che si tuffa in acque cristalline, mentre l’uomo dello scandaglio raccoglie la lunga cima.

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Navigare…

Navigare mi ha sempre affascinato, ho sempre ritenuto che i navigatori fossero delle persone speciali: pregne di umanità, altruismo, sensibilità.
Oggi, con le nuove tecnologie, qualsiasi incosciente può decidere di prendere il mare su una qualsiasi barca che abbia tutta una serie di apparecchiature elettroniche a bordo; imbarcando con sé anche l’irresponsabilità, la presunzione e la meschinità. Queste persone sono un grosso pericolo per gli altri e per se stessi, ma il mare questo lo sa bene.

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La Ninfa

I vapori saturavano la grotta condensandosi in gocce sotto la volta che, gravide, cadevano di tanto in tanto. L’uomo galleggiava leggero lasciandosi portare dalla piccola corrente creata dal getto d’acqua che sgorgava da un’anfora incastrata nel muro appena sopra la vasca. Qualcuno si era preoccupato di profumare l’acqua con essenze di eucalipto e alloro, più un altro profumo che non riusciva a identificare. Si sentiva avvolto in un limbo benefico. Era come se fosse lì dalla nascita, anzi, da molto prima. Gli sembrava come se il tempo stesse decidendo se continuare il suo corso o fermarsi a contemplare la scena, fissandola in un tempo senza tempo. Un piacevole calore gli faceva scorrere stille di perle lucenti che gli scivolano lentamente lungo il viso gocciolando nell’acqua. Sulla parete piccoli pezzetti di maiolica creavano un elaborato mosaico con scene di ninfe velate e ancelle con anfore e ghirlande di fiori, con piccole sorgenti che s’immettevano in una vasca simile a quella in cui si trovava l’uomo. Il tutto era incorniciato da linee ondulate di disegni moreschi che davano l’aspetto di un oriente antico e misterioso.

Le ancelle raccoglievano l’acqua sorgiva in piccole anfore disegnate delicatamente e, dopo averle profumate di oli fragranti, le versavano lungo il corpo delle ninfe – appena coperte da sottili veli di mussola. Alcune di esse si rincorrevano in cerchio saltando e danzando, per poi immergersi allegre nella piscina. Le voci gli giungevano chiare, contornate da fruscii, sciacquii e risolini allegri. Una melodia sconosciuta si fece strada, inerpicandosi delicatamente lungo il soffitto, per poi degradare lungo le pareti, fino a galleggiare sull’acqua.

Lei comparve da dietro la colonna incamminandosi lungo la vasca: il tessuto che l’avvolgeva ondeggiava spinto dall’andamento sinuoso delle anche. Si soffermò un attimo sorridendogli e poi s’immerse – mentre l’acqua si apriva al suo passaggio, per poi richiudersi alle sue spalle – in un liquido abbraccio contornato da lievi mulinelli, che le accarezzavano le cosce mentre avanzava. Sulla parete le ninfe li osservavano e ammiccano con sorrisi complici e piccole spinte dei gomiti. L’uomo rimase sdraiato sull’acqua, mentre veniva lambito dalle piccole onde create da lei, che era appena emersa al suo fianco. Le mani si toccarono con dita avide e curiose, poi le labbra si sfiorarono strisciando sulla pelle madida del sapore termale di sorgente calda. Infine le membra si unirono – aderendo perfettamente – in un ripetitivo e continuo orgasmo. Fino a quando un canto leggero in una lingua ancestrale iniziò a seguire il ritmo dei loro corpi. Fino a quando la melodia saturò l’ambiente. Fino a quando il tempo scordò il passato e abbandonò il futuro. Fino a quando dimenticò se stesso.

Era buio, l’inserviente vide il corpo galleggiare immobile con la faccia sotto e le braccia allargate. Si precipitò nella vasca con la speranza che l’uomo fosse ancora vivo. Ma il suo cuore s’era fermato già da un pezzo. “Dio”, pensò. “E’ il terzo che muore in un mese”.

Mentre sollevava il corpo appoggiandolo sul pavimento, il suo sguardo cadde sulla la scena lungo la parete – appena illuminata da una cono di luce soffusa. “Strano” pensò. “Eppure quella ninfa me la ricordavo nascosta dietro una colonna”.

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