Gli ho dato un taglio.

Il buio si stava allontanando, sbadigliando dietro l’orizzonte, cominciai a intravedere la sagoma lattiginosa di un’alta propaggine. La radio iniziò a gracchiare suoni incomprensibili, poi una voce metallica diramò il bollettino nella lingua dei marinai: “… vento da nord est con rinforzi  fino a trenta nodi, mare da mosso a molto mosso… ”  Ammainai la randa, ridussi il fiocco e continuai verso l’imponderabile.

Poco dopo le prime sventagliate d’aria iniziarono a colpire Anahita facendola rollare pesantemente: mi trovavo nel canale che univa Gran Canaria e Tenerife, i cui  rilievi creavano un canyon sul mare alto oltre tremila metri. Il vento, incuneandosi tra quelle  elevate pareti vulcaniche, accelerava fino a raddoppiare quasi la velocità. Anahita cavalcava l’onda con fatica sotto le raffiche incessanti, e io pregavo di superare al più presto quel passaggio infernale. Ma uno schianto feroce fece tremare Anahita in tutta la sua struttura, facendole perdere la stabilità – mentre cominciava a ruotare su se stessa. Guardai verso prua e mi resi conto del disastro subìto dalla mia compagna di viaggio: lo strallo di prua si era completamente sradicato dalla coperta, strappando quel poco di vela che la teneva in asse. Ormai eravamo preda dei marosi. Legai la cintura di sicurezza e corsi a prua armato di coltello per liberare l’albero da quel groviglio di tela e cime. Ma la violenza del mare non ci dava tregua: le onde si susseguivano incalzanti, in un mare turbolento e insidioso, abbattendosi su di noi senza pietà. Lottai in un equilibrio instabile contro quella forza della natura che mi faceva cadere sul ponte ad ogni ingavonata; mentre la sorte mi stava preparato un brutto scherzo: il coltello – come se avesse posseduto una volontà propria – tagliando l’ultima cima, continuò la sua corsa verso il basso e mi accorsi, in un misto di stupore e spavento, che mi ero procurato una ferita lunga e profonda sulla coscia sinistra, a poca distanza dall’arteria femorale. Paura mista a rabbia attraversarono il mio corpo con un tremito irrefrenabile, seguito da alcuni attimi in cui neanche il frastuono della burrasca si sentiva in quella quieta perdita di contatto con la realtà. Uscii da quel breve limbo e misi in sicurezza l’attrezzatura e, dopo aver annaffiato il ponte con il mio sangue, legai una cima sopra la ferita per fermare quel sacro fluido che  trattiene la vita. Ero a trenta miglia dalla costa con mare in burrasca, grosse onde ci investivano senza sosta, martellandoci continuamente. Folate raccapriccianti ululavano tra le sartie prive di vela, Anahita tremava mentre io ero sul punto di perdere coscienza. I minuti passavano lenti, ci mettevano secoli per formare un’ora, guardavo l’orologio con la netta sensazione che retrocedesse. Il mare ormai era diventato bianco, un bianco terrificante, mentre Anahita suonava clangori funerei sotto le raffiche insistenti.

E dopo molti secoli giunsi in vista del porto di Los Cristianos, allertai la Capitaneria descrivendogli le mie condizioni fisiche – se avessero saputo anche di quelle mentali oltre all’ambulanza avrebbero mandato anche una camicia di forza: ero furioso e incattivito dalla tensione e condannavo la mia stupidità. Sono convinto che il terzo principio della Dinamica che afferma: “A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”  si possa applicare al mare, con una piccola variazione: “A ogni azione corrisponde una reazione doppia e contraria” . Il mare ti castiga con gli interessi a ogni superficialità commessa.

All’imboccatura del porto vidi un capannello di gente incuriosita vicino all’ambulanza, ma a questo punto necessita una descrizione minuziosa delle mie sembianze: avevo una cerata gialla tagliata e macchiata di sangue, il contrasto tra i due colori era impressionante. La barba incolta, le occhiaie e il viso sporco di sangue rappreso non contribuivano per niente a darmi un aspetto gradevole. Inoltre la cima intorno alla coscia mi faceva deambulare con difficoltà. Il tutto mi dava un aspetto strano: sembravo uno zombie indemoniato.

Un infermiere comparve tra la folla che si aprì come le acque del mar rosso, e facendomi adagiare sulla barella mi chiese: «Quiere beber?». «Sì, una cerveza!», risposi. Era l’unica cosa che desideravo in quel momento.

Dopo un numero imprecisato di punti di sutura e un numero imprecisato di ore al pronto soccorso, tornai in barca come un cane bastonato. Quella notte non chiusi occhio; c’era un solo pensiero che mi ronzava in testa: che, per via dell’incidente, avrei dovuto rinunciare a fare la traversata dell’Atlantico. Ero molto abbattuto. Le telefonate degli amici non mi aiutavano certamente a risollevarmi: tutti mi consigliavano di abbandonare l’impresa.

Il giorno dopo mia moglie era a Tenerife, mi  guardò negli occhi e, sapendo cosa mi passasse per la testa, mi disse: «Vai, continua, realizza il tuo sogno perché sono sicura che ci riuscirai.»

La barca ora è a Martinica nelle Antille Francesi, ma questa è un’altra storia.

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Un’altra storia

L’Atlantico una distesa d’acqua capricciosa come una donna, che ti ammalia con le sue lusinghe. Ti accarezza con il soffio dell’Aliseo e ti spinge leggero verso la meta, ma improvvisamente tira fuori gli artigli e diventa una fiera aggressiva e pericolosa, con sbuffi traditori e folate micidiali. Ti circonda con dolci colline d’acqua che degradano sotto la chiglia, ma senza preavviso le trasforma in montagne insormontabili e impervie, che si abbattono sullo scafo inesorabilmente, travolgendoti e trasformando il tuo sogno in un necrologio. Ma Anahita, la mia compagna di avventure, mi è stata fedele: non ha belle linee, ed è un po’ goffa, ma nonostante l’età avanzata mi ha condotto dall’altro lato dell’oceano, resistendo e sopportando continue sollecitazioni; reagendo con piglio deciso e lasciando sull’oceano una scia lunga tremila e seicento miglia. Cosa si può chiedere di più a una barca?
Dopo quattro lunghe settimane finalmente la meta: Mont Pelèe fa capolino dietro la foschia, sembra sorridere, un sorriso caraibico fatto di palme che svettano nel cielo azzurro, cosparso di fiocchi di nuvole cotonate; di lunghe spiagge bianche e assolate; di un mare turchese e cristallino abitato da pesci multicolori; del profumo di spezie sconosciute e misteriose; di Steel Band che suonano a ogni angolo di strada e da un’aria calda e accogliente che ti avvolge come in un sogno.
Ho affrontato questa traversata con l’intenzione di superare da solo l’oceano Atlantico e tra episodi piccoli e grandi mi sono aggiudicato il primo round – dopo un incontro duro e senza esclusione di colpi. Ma l’incontro non dura un solo round e sono ancora lontano dalla meta, ci arriverò in serata.
E’ buio, l’entrata è difficoltosa: un dedalo di secche e reef che sulle carte nautiche è definito “cul de sac”, non bisogna conoscere per forza il francese per capire il significato di queste parole: un budello cosparso di boe che segnalano il corridoio d’entrata del porto turistico di Le Marin. La prudenza mi consiglia di aspettare l’alba, l’azzardo mi incita a continuare; ascolto il secondo (sono stanco). Inizio a superare alcune secche seguendo attentamente le boe di segnalazione illuminate da un’intensa luce rossa: una, due, tre , quattro… dov’è la quinta? Quando realizzo l’errore è ormai troppo tardi. Uno stridìo sommerso mi fa accapponare la pelle, Anahita si blocca dando l’ultimo beccheggio in avanti e, arenandosi su un reef, resta immobile circondata da un oscuro silenzio. E’ una sensazione spiacevole, ho sentito la sofferenza della barca fin dentro le mie ossa. Il mare mi ha presentato il conto, calcolando un alto tasso di interessi. Ho abbassato la guardia e ho subìto un KO che mi ha steso al tappeto. Devo rialzarmi prima che finisca il conteggio! Provo a dare motore, prima avanti poi indietro, ma Anahita si appoggia su un lato soffrendo, e io con lei. Piango, mi inginocchio, mi dispero; sento tutto l’universo addosso. L’arbitro continua a contare… sette, otto… è finita! Aspetterò l’alba per chiedere soccorso; un sogno infranto proprio sul finale.
Mont Pelèe non mi sorride più, è avvolto nel buio, le palme, le spiagge bianche, le spezie, il mare turchese, sono scomparse dalla mia fantasia, mi resta solo il vento, caldo e costante… il vento? Che stupido, sono uno stupido! Come ho fatto a non pensarci prima? E’ una manovra rischiosa, ma possibile! Perché non tentare, tanto, male che vada, Anahita non si sposta più di tanto. Armo la randa e tiro su il fiocco e resto in attesa di un buon rinforzo di vento. Ecco! Ora! Cazzo le cime a ferro e Anahita si inclina, e, lentamente, comincia a spostarsi liberandosi dal giogo e portandosi verso acque più profonde. Un urlo liberatore si ripercuote nell’oscurità, sciogliendomi lo stress accumulato fino a pochi minuti prima. Mi sono rialzato prima che l’arbitro finisse di contare, e con un gancio ben piazzato ho abbattuto il mio avversario. Siamo pari!
Fatto l’ormeggio m’incammino sul pontile in cerca di qualcuno con cui parlare dopo tante settimane di silenzio, ma sono le tre di notte e in giro non c’è nessuno. Torno in barca, ma il sonno non arriva. Strano che dopo aver desiderato per giorni di farmi una bella dormita adesso non ci riesca.

Sono a Martinica, Anahita è ormeggiata, adesso riposa, e io veglio…

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Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle

Eccomi qua, di nuovo sulla barca, a organizzare tutto l’organizzabile, a cercare, senza trovarlo, il punto debole che potrebbe trasformare l’avventura in una tragedia; passando le ultime ore a chiedermi se è una follia il ritorno in Atlantico da solo. È troppo forte la voglia d’avventura.

Sono pronto, la paura mi viene a trovare, le dico che non è invitata ma lei se ne infischia e diventa quasi un ospite fisso; la ignoro e mi dedico a studiare la rotta per il ritorno. Compro sette stecche di sigarette e alle 11:00 del 27 maggio parto da St. Marten — con la convinzione di aver lasciato la paura sul pontile — e faccio rotta verso le Azzorre. Duemilaquattrocento miglia da percorrere in circa ventidue giorni. La giornata è splendida l’aliseo mi accompagna con dolcezza, comincio a rilassarmi e mi accendo una sigaretta (sarà l’ultima, le altre le ho regalate agli amici).

All’improvviso il tempo comincia a cambiare: grosse nuvole si ammassano all’orizzonte, il vento aumenta e il mare s’ingrossa; riduco le vele e mi appresto a passare la prima notte insonne. Fulmini all’orizzonte, la nottata è lunga e non fa sperare in niente di buono. Provo a mangiare qualcosa, ma è impossibile; mi sento dentro una betoniera. Mi accuccio in un angolo e m’impongo di pensare a cosa fare, ma… niente, non posso fare niente, tutto quello che potevo fare l’ho già fatto. Resto in attesa, prima o poi dovrà finire.

Le notti insonni aumentano, dopo una settimana sono ancora in balìa del maltempo. Mangio quando posso, dormo come posso. I bollettini meteo sono scoraggianti: si prevedono peggioramenti. Alle Bermuda, seicento miglia dalla mia posizione, ci sono ripetuti avvisi di burrasca, mentre la perturbazione si sposta verso la mia rotta. Una barca a vela tedesca, con cinque persone a bordo, ha perso il timone e va alla deriva per l’oceano.

Toc! Toc! La paura bussa, sprango la porta, ho problemi più importanti. La barca rolla ininterrottamente, l’interno è tutto bagnato, fa freddo e sono intirizzito, cerco di coprirmi con più indumenti possibili. Le onde s’ingrossano e cominciano a frangere; qualcuna anche all’interno. La mente lavora, poi vola e si lascia trasportare dalle onde.

I minuti si susseguono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane…

L’alba del 22 giugno mi regala finalmente una giornata tersa e un mare amico. Oltre la foschia, la sagoma di Pico, una delle isole di un arcipelago sperduto in mezzo all’oceano Atlantico: le Azzorre. L’arrivo a Faial è previsto tra circa sette ore. Finalmente mi rilasso e comincio a godermi quelle rimanenti ore di navigazione tranquilla. Avvisto un gruppo di Delfini con il ventre rosa, dopo un po’ la coda di un Capodoglio che s’immerge… le Azzorre sono famose per il whale watching. Alle 14.00 arrivo a Faial, faccio l’ormeggio da solo e mi avvio verso l’ufficio della capitaneria con la sensazione di camminare sollevato da terra. Forse è il mal di terra? No, è la mia anima che vola, la tappa più dura è finita e io sono raggiante; tutto intorno a me risplende.

Il porto turistico è ben attrezzato, ottimo rifugio e meta di tutti i navigatori atlantici. Il punto di ritrovo è nel “fumoso” bar Café Sport di Peter, dove tra una birra e l’altra, in una babele di lingue, la gente si scambia esperienze e storie di mare. Il fascino di questo porto turistico si manifesta lungo tutta la scogliera frangiflutti, dove ogni equipaggio lascia il proprio disegno, perché, si racconta, se non lo fai la malasorte ti perseguiterà. I disegni sono una vera esplosione cromatica, c’è ne sono di bellissimi, di ogni forma e colore, creati da gente che viene da tutte le parti del mondo. Questa isola è in pratica la Mecca dei navigatori atlantici. Mi metto alla ricerca di colori e pennelli per assolvere al mio dovere di pittore. Il disegno fa schifo, ma va bene lo stesso. Stasera bistecca e patate fritte, le sogno da tempo.

Mi trastullo qualche giorno, poi mi dedico alla barca con perizia, mancano ancora milleduecento miglia, non bisogna abbassare la guardia. Decido di fare una tappa intermedia, da Faial a Sao Miguel di centocinquanta miglia, poiché il tempo non mi convince.

Giunto, finalmente, a Sao Miguel dopo un’ulteriore prova di forza, riorganizzo la barca giacché l’ultimo tratto mi ha “rimescolato gli interni” e resto in attesa alcuni giorni di un bollettino meteo favorevole. Dopodiché mi rimetto in navigazione per altre mille miglia verso la mia ultima tappa.

Ricomincia il ballo: pioggia, vento forte, onde alte; musica già ascoltata. Più vado avanti e più peggiora. Oltre al maltempo devo stare attento anche alle navi, che in questa zona incrociano a centinaia, e di tutte le dimensioni. Stringo i denti e subisco senza fiatare.

Anche in questo tratto l’oceano ha messo a dura prova sia me sia la barca. Il mare grosso e il vento forte, mi hanno fatto stare in pena, sulla mia rotta sono riuscito a evitare due brutte depressioni. Alla fine la depressione ha colpito anche me, ma non quell’atmosferica.

Dopo cinque giorni sono stremato, decido di puntare su Lagos in Portogallo, è più vicino. Ci arrivo di notte, e per la mia negligenza rischio pure di andare a scogli. Passata la paura, resto in zona in attesa che anche questa perturbazione passi. Mancano solo cento miglia per il Mediterraneo e finalmente il 7 luglio si chiude il cerchio, sono a Gibilterra.

Mentre sono disteso al sole mi viene in mente una scena della mia infanzia: ero piccolo e stavo al mare con i miei, mio padre m’incoraggiava a entrare in acqua per insegnarmi a nuotare, ma io ero spaventato e gli dicevo: «Papà non ci riesco, ho paura».

E mio padre: «Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle».

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Il trafficante di sogni

Dreamson la vide uscire dall’acqua: era ammantata da un’aura misteriosa, con passo lieve si diresse lentamente verso di lui; il corpo, color ambra, era cosparso di umide perle di luce; lunghi capelli neri e morbidi le ricadevano sul fondo schiena sinuoso. Con fare felino la donna si sdraiò accanto a lui, gli sorrise e lo baciò intensamente, e senza parlare si mise a cavalcioni su di lui. Dreamson si sentiva avvolto da una strana alchimia. Lei iniziò a muovere i fianchi con ritmo lento, sospirando dolci suoni in un mantra ignoto, mentre inarcava la schiena ad ogni spinta di lui, soggiogato da quella creatura misteriosa. E in una lirica di sensi mai provati consumarono un singolare, intenso e stravolgente amplesso.

Si svegliò turbato e disse:“No, questo non lo vendo, questo sogno lo terrò per me!”
Si tolse la mascherina da notte e si diresse alla consolle per spegnere l’impianto: una sofisticata apparecchiatura che trasformava i sogni in impulsi, i quali, trasmessi a un computer, venivano ricodificati e trasformati di nuovo in immagini e suoni. L’impianto era alimentato con una serie avanzata di pannelli fotovoltaici creati da lui e posti sulla cima dell’albero su cui viveva nascosto nella foresta Amazzonica. Estrasse la smart card e la nascose in una cavità dell’albero, attraversò a grandi passi il pavimento  – che delimitava un piccolo ambiente fatto di assi di legno posto sopra due grossi rami nodosi –  prese lo zaino se lo mise in spalla e scese giù lungo una scala di corda e, dopo averla occultata attentamente, si diresse verso uno dei tanti affluenti del Rio delle Amazzoni. Dietro un grosso masso, celata da larghe fronde, teneva nascosta una canoa, la fece scivolare nel fiume e pagaiando attentamente si allontanò verso est. Dopo aver navigato lungo il fiume per quattro ore giunse in un piccolo centro abitato e con passo sicuro s’inoltrò in una stradina. Guardandosi intorno estrasse una chiave che apriva un grosso lucchetto posto all’entrata di un garage; montò sul fuoristrada e dopo aver richiuso la saracinesca si diresse alla periferia del pueblo; imboccò un sentiero di terra battuta e continuò a guidare per alcune ore lungo strade sterrate e sconosciute. Arrivò a Manaus nel primo pomeriggio, doveva fare presto a quelle latitudini il sole calava in fretta. Entrò in un autolavaggio e fece ripulire il fuoristrada, dopo  guidò per mezz’ora e posteggiò in una piazza, si avvicinò a un bambino e gli diede cinque dollari e  una busta, il bambino attraversò la piazza e imbucò la busta in una cassetta delle lettere. Dopo aver controllato che tutto fosse andato liscio Dreamson rimontò sul fuoristrada e con discrezione si allontanò rapidamente verso il suo nascondiglio nella foresta. La busta era indirizzata ad un ricettatore di Caracas e conteneva una sottile mascherina da notte, meno sofisticata di quella usata da Dreamson: intessuta da una microscopica rete di contatti neurali che, messa sugli occhi, dava al soggetto esattamente la stessa sensazione di un sogno originale. La mascherina veniva duplicata in alcune migliaia di copie e distribuite ad una sotto rete di spacciatori che, a loro volta, ne facevano ulteriori copie, a discapito della qualità delle immagini e dei suoni. I prezzi variavano da tremila dollari americani per le copie di alta qualità, ai duecento dollari per quelle di qualità più scadente. Al ricevimento della busta il ricettatore accreditava su un conto cifrato della Cayman Security Bank, due milioni di dollari americani, i quali venivano automaticamente divisi su altri quindici conti cifrati di altrettante banche sparse per il mondo. Da alcuni anni e per una ragione inspiegabile, il cinquanta per cento della popolazione terrestre non riusciva più a sognare. L’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva tentato in tutti i modi di debellare il virus che cancellava i sogni, ma a ogni anno che passava gli infetti aumentavano sempre di più. Lo stato d’allerta aveva superato già da tempo la fase sei ed era passato a quello di post-pandemia. La gente andava alla disperata ricerca di esperienze oniriche originali; si era così creato un mercato parallelo e illegale di spaccio di sogni con conseguente dipendenza onirica. C’era gente senza possibilità economiche disposta a rubare o addirittura a uccidere pur di sognare un sogno anche di qualità scadente. Dreamson era il trafficante di sogni più bravo del pianeta, i suoi sogni erano molto richiesti perché era un onironauta: un esperto di sogni lucidi. Riusciva a produrne almeno quattro al mese ma gli costava molto in termini di salute psichica: la mente veniva messa sotto torchio per sfruttare al meglio la qualità delle visioni oniriche. In più il montaggio era duro ed estenuante e lo teneva inchiodato al computer giornate intere, a volte facendogli saltare anche i pasti. Ma quel giorno era contento: il sogno della notte precedente aveva risvegliato in lui delle nuove sensazioni che non provava da tempo e non intendeva condividerle con nessuno.

Giunse al nascondiglio che era già buio, con fatica si arrampicò per la scala di corda ed entrò in casa. Si diresse direttamente alla cavità dell’albero dove aveva nascosto la smart card, la inserì nel computer e avviò l’elaborazione e il montaggio del sogno avuto la notte precedente. Era stanco morto, la giornata era stata lunga e stressante, ma non esitò: accese la consolle, indossò la mascherina da notte e si sdraiò sul letto. Iniziò a fare alcuni esercizi di rilassamento e respirazione lenta per predisporre la mente ad un sogno lucido: il suo proposito era quello di sognare di nuovo la donna misteriosa, ma questa volta controllando il sogno. Iniziò a ripetere lentamente sempre la stessa frase: “In questo sogno mi accorgerò che sto sognando”. “In questo sogno mi accorgerò che sto sognando”. La frase ripetuta più volte permetteva di sincronizzare gli emisferi cerebrali e di introdurre l’onironauta al passaggio tra veglia e sogno. L’esercizio dava buoni risultati per la tecnica ma non garantiva la scelta del sogno, Dreamson sperava di riuscirci.

I minuti si alternarono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane. Ritornò su quella spiaggia tutte le notti ma senza mai incontrarla, era disperato. Finché una notte: Dreamson indossava uno smoking bianco e un berretto da baseball rosso, guardava verso la distesa d’acqua turchese in attesa di una apparizione che tardava a comparire. Irrequieto iniziò a passeggiare nervosamente sulla battigia avanti e indietro girandosi ogni tanto verso il mare. Lentamente, cominciarono a formarsi alcune piccole onde che a mano a mano aumentavano sempre di più. Il mare iniziò ad agitarsi e poi, dopo un po’, a ribollire. Sembrava come se una forza sovrannaturale stesse cercando di vincere la pressione dell’acqua, ma non ci riuscisse. Dreamson aveva la sensazione che lì sotto si celasse qualcosa di sinistro, cominciò ad arretrare verso la folta boscaglia che si trovava alle sue spalle, ma inciampò in un sasso e cadde. Tentò di rialzarsi ma la sabbia l’avvolgeva sempre di più trattenendolo inesorabilmente. Iniziò a scrollarsela di dosso, mentre i granelli di sabbia s’ingrossavano e scoppiettavano come dei pop-corn impazziti. Improvvisamente sull’acqua si formò una grossa bolla d’aria che esplodendo liberò uno sciame di insetti alieni i quali si diressero verso di lui. Lo sciame iniziò a roteare e a prendere forma, inizialmente amorfa e poi, piano piano, sempre più netta e umana. La donna si manifestò davanti ai suoi occhi circondata da una luce malefica, e con un freddo sorriso gli disse:”Dreamson sono venuta a prenderti, il tuo tempo è scaduto!” Il viso di lei cominciò a sciogliersi lentamente in  un laido susseguirsi di nauseante sfrigolio accompagnato da un verso sconosciuto e raccapricciante, che gli gelò il sangue nelle vene. Si strappo la mascherina da notte e si sedette in mezzo al letto: era completamente zuppo di sudore e faticava a respirare. Uno strano fruscio seguito da un ramo spezzato lo destarono completamente dal torpore post-onirico: aprì una cassapanca e ne estrasse una pistola, uscì in silenzio e si arrampicò sul ramo al di sopra del tetto; si mise disteso e attese, pronto a vendere cara la pelle. Una quindicina di uomini armati fino ai denti e alcuni cecchini posizionati sugli alberi, circondavano il suo nascondiglio. Una voce perentoria che sapeva di legge risuonò in quell’alba appena iniziata: “Dreamson esci dal nascondiglio con le braccia in vista e bene alzate!” “Dreamson se esci subito con le braccia alzate ti prometto che non ti torceremo un capello, hai cinque minuti!” Dreamson malediceva la sua stupidità: erano passate due settimane dall’ultimo invio di merce al ricettatore di Caracas, e questi convinto che lui avesse fatto accordi con qualche suo concorrente, l’aveva sicuramente denunciato. “Maledetto sogno, mi ha stregato” si disse Dreamson. ”Dreamson veniamo a prenderti, il tuo tempo è scaduto!” Tuonò il capo della squadra speciale antionironauti. Un fucile automatico con un binocolo di precisione sparò un solo colpo, gli uccelli tacquero e nella foresta ci fu silenzio.

L’ospedale psichiatrico di Seattle era il più moderno e attrezzato degli Stati Uniti, aveva un padiglione speciale dedicato unicamente alle patologie sulle percezioni derivanti da illusioni e allucinazioni gravi nei malati terminali. Jack, un  grosso omaccione nero alto due metri, iniziò il giro di controllo come ogni mattina. Giunto all’altezza della stanza numero tredici afferrò la ricetrasmittente e chiamò il collega: “Jhon raggiungimi alla tredici presto!”  “Che è successo?” Chiese Jhon. “Dreamson è morto!” rispose Jack. Poco dopo Jhon entrò nella stanza e vide il corpo privo di vita di un uomo col viso deformato da una smorfia di dolore. “Cos’è quella cosa?” Domandò Jhon, indicando un oggetto a fianco al morto, che Jack in precedenza non aveva notato.“Mi sembra una mascherina da notte con una trama di piccoli fili.” rispose Jack rigirandosela tra le mani. “Strano, chissà chi ce l’ha portata qui!”  Ribattè Jhon incuriosito. “Non lo so, ma è meglio che non lo diciamo a nessuno, c’è il rischio che perdiamo il posto” rispose Jack mettendosela in tasca. “Dài andiamo a fare rapporto” insistè Jack, e uscendo buttò la mascherina di Dreamson nel contenitore dei rifiuti speciali.

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L’esperimento

Si svegliò da un sonno agitato, la sveglia segnava le 06:58; dalla finestra entrava un’aria frizzante di un bel mattino di metà settembre. Non ricordava il sogno ma era certo che non era stato bello: “Forse un incubo” pensò. Cercava di focalizzare i suoi pensieri su quello che aveva sognato, ma niente, non gli tornava in mente assolutamente niente. Si trovò in bagno guardandosi allo specchio: aveva il viso cereo e grosse occhiaie che gli si allungavano fin quasi alle gote: “Non è un bel vedere” si disse. Aprì il rubinetto e con le mani a coppa si spruzzò in faccia grosse quantità di acqua fredda – come se volesse, con quel gesto, cancellare quella sgradevole immagine di sé.

Senza ricordare la dinamica, si ritrovò in cucina con una tazza di caffè in mano, chiedendosi quando fosse successo. Aveva addosso una strana e indefinibile sensazione di disagio che non lo mollava; oltretutto c’era il fatto che non riusciva a ricordare i passaggi dal letto alla finestra e poi al bagno e infine in cucina. Improvvisamente una quantità enorme di informazioni cominciò ad affluire nella sua mente a una velocità impensabile per un cervello umano. Aveva il corpo attraversato da leggeri e continui spasmi, ma una attenta lucidità gli faceva capire di non preoccuparsi e di rilassare la sua mente, anzi di aprirla ancora di più. Senza preavviso gli spasmi aumentarono: cadde sul pavimento e cominciò ad inarcare e raddrizzare la schiena sempre più velocemente. Era lucido, era cosciente, era vivo; la morte non lo preoccupava, sapeva di non morire, sapeva che quello che gli stava succedendo era una prova, era un esame: un esperimento. Una luce intensa lo accecò e perse i sensi.

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Naufrago

Mi svegliai come da un lungo e angoscioso sogno: avevo le mani cosparse di piaghe, le labbra mi bruciavano maledettamente ed erano coperte di pustole; le spalle sembrava fossero attraversate da lunghi spilli roventi. Il pavimento si muoveva, anzi no, rollava: dei rigagnoli d’acqua salmastra, dal sapore stantio, sciabordavano senza sosta lambendomi il corpo disteso sul paiolato che puzzava di pesce marcio. Il sole era di un bianco talmente accecante che nemmeno socchiudendo gli occhi riuscivo a capire l’ambiente che mi circondava.
Fu l’odore del mare e lo sciacquìo dell’acqua che mi informò del mio stato di naufrago. Provai ad alzarmi, ma il rollio della scialuppa mi fece capire, senza pietà, le condizioni precarie in cui mi trovavo. La sete mi assaliva come un’orda di cani bavosi, ero circondato da un oceano d’acqua senza poterla bere. Mi girai sul dorso, allungai il braccio sostenendomi a uno scalmo e riuscii a sedermi al centro della barca: avevo la testa bombardata da centinaia di palle di cannone, da vele quadre incendiate e da alberi spezzati che cadevano sui ponti delle navi seminando morte e distruzione; da arrembaggi con spade ricurve, sciabole e coltellacci che trapassavano i corpi dei marinai, e palle di moschetto che dilaniavano la carne e menomavano senza pietà; da grida di uomini, lamenti di feriti, risate oscene, pianti irrefrenabili, visi deformati dal terrore, grida e bestemmie partorite dalla battaglia. E sangue, sangue d’ovunque. E grazie ad una pozza di sangue che scivolai infilandomi, contro la mia volontà, in una larga apertura  fatta da una palla di cannone e caddi in mare galleggiando in un groviglio di sartie e pennoni. E quando infine le due navi s’inabissarono contemporaneamente – lasciando a galla solo corpi e oggetti inanimati – con le ultime forze riuscii ad aggrapparmi a l’unica scialuppa rimasta intera in quel disastro.

 

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Il tempo

Il tempo mi ha rubato un altro anno… maledetto tempo: inizi con i secondi; poi i minuti; poi le ore e infine mi rubi giorni interi, settimane, mesi, anni! Lo so un giorno smetterai di correre, ti fermerai; ma sarà un giorno funesto… Ti odio tempo!

 

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La bicicletta

Lei mi aveva lasciato dimenticando il pupazzo con un buco al posto dell’occhio. Mi ritrovai seduto sul pavimento al centro della stanza senza riconoscere l’uomo riflesso nello specchio sulla parete opposta.“Chi sei?” Gli chiesi. Guardai verso la finestra: faceva buio, le luci si erano già accese illuminando una strada vuota e bagnata dalla pioggia autunnale. Un cigolio fastidioso si insinuò nella mia mente, mi alzai e guardai giù: la bici si trascinava rumorosamente trasportando una sagoma nera, ingobbita dalla pioggia che scrosciava rumorosamente. L’uomo sbandò e cadde; si rialzò dopo un po’ massaggiandosi il ginocchio e volgendo lo sguardo verso l’alto, scorgendo la mia figura scura sullo sfondo giallo della finestra. L‘uomo rimontò in sella girandosi a guardare, ancora una volta, nella mia direzione e continuò verso il suo destino.

Scesi le scale di corsa con il fiato in gola. Uscito in strada girai l’angolo: non c’era nessuno.

Mi ritrovai tutto bagnato al centro della strada lunga e desolata, senza capire perché. Tornai indietro noncurante della pioggia, superai il portone di casa e m’inoltrai nei vicoli silenziosi scrutando nel buio a destra e a sinistra alla ricerca del niente. Mi guardai i piedi: ero scalzo.

 

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Foglio bianco

Sono davanti a un foglio bianco, sforzandomi di vedere quello che non c’è, cercando di descrivere e trasformare in segni quello che penso, quello che si materializza nella mia mente. A volte lo guardo, gli guardo dentro, per interi minuti, guardo il suo biancore accecante, i suoi contorni, la sua geometria, la sua fredda immobilità, la sua gelida fissità, guardo la sua bidimensionalità, la sua algènte immutabilità. Poi comincio a far passare il mouse sulla barra degli strumenti e sulle funzioni: lo stile, il carattere, la dimensione, colore, sfondo… ”riscaldo le candelette”, prendo tempo. Rovisto nella mia testa, esploro, cerco, frugo; si affacciano le prime porzioni d’ immagini, i primi flash. Sono pezzi di ricordi, a volte in bianco e nero, a volte a colori, senza una forma definita, che cerco di fissare, di imprimere, sviluppare. Si delineano, si sovrappongono si trasformano, vanno via, ritornano. Cerco di dare un ordine al caos, cerco un entropia mentale. Prendo questi pezzi di puzzle e provo a unirli, selezionandoli, dividendoli, scartandone alcuni, aggiungendone altri. M’immergo dentro di loro, ci nuoto, mi lascio trasportare galleggiandoci sopra; attraversando vortici indefiniti, gorghi inspiegabili, supero colline di ricordi, altopiani di concetti, scalo montagne di significati, cordigliere di pensieri. All’inizio è un ricordo, lontano, remoto, vago, una storia , un racconto, una sensazione, una scena di un film, un libro letto anni addietro, o solo un immagine. Poi inizio a dargli una forma, un’ossatura, un corpo. Lo animo, gli dò vita, lo nutro, lo disseto, lo vesto di parole, di frasi, di locuzioni. oppure lo svesto, lo spoglio, lo disadorno, finché non ricresce e diventa adulto… pronto e chiaro come un mattino d’alta quota.

Il problema è trasformarlo in prosa.

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Dove sei?

Sono disteso sull’amaca, montata tra l’albero e lo strallo di prua, leggendo le disavventure di Edmod Dantés: tradito dagli amici, incarcerato e privato dell’amore di Mercedes Herrera, che amerà per sempre, nel Il Conte di Montecristo. Ogni tanto distolgo l’attenzione dalla lettura, e dò uno sguardo intorno contemplando lo spettacolo che mi offre la natura.

L’aliseo mi accarezza avvolgendomi in un abbraccio caldo e costante, creando un dolce fruscio tra le palme di cocco protese verso il mare e distorte dal vento e dalla gravità. L’acqua cristallina, la cui trasparenza rende il fondale minacciosamente vicino, riflette l’ombra della barca che dondola dolcemente all’ancora. Sotto di essa, nella doppia veste di prede e predatori, un universo  variopinto s’industria alla ricerca dell’unico motivo di sopravvivenza, tra gli scheletri calcarei dei coralli. Sulla spiaggia bianca e assolata due granchi si rincorrono in circolo in una strana e misteriosa danza d’amore o di morte. Poco più in là, un colibrì vestito di blu cangiante vola  a scatti repentini da un fiore all’altro baciandoli dolcemente. E ancora oltre, le onde dell’oceano si frangono in un susseguirsi continuo e rumoreggiante, su un confine delineato da coralli e madrepore. In alto si avvicendano veloci batuffoli di cotone che si stagliano contro l’azzurro di un cielo caraibico, punteggiato da nere sagome dal preistorico profilo, che volteggiano alla ricerca di cibo. In lontananza un triangolo bianco risale il vento dirigendosi, senza fretta apparente, verso chissà quale esotica meta.

Mentre nella mia mente si forma il canovaccio descrittivo di questo scenario naturale… penso a te: rimbalzi nella mia mente come una palla di flipper, creando scintille di coscienza e  incertezza a ogni pensiero che si forma. Ogni impulso nervoso è ricoperto dalle tue sembianze: da un sorriso, uno sguardo, una posa. La tua immagine cresce a dismisura, a volte deformata, fino a straripare dallo schermo della mia immaginazione. Cerco di materializzarti nella mia memoria, ma perdo pezzi congrui di fantasia e annaspo tra i marosi dei tuoi molteplici profili, cercando di aggrapparmi a qualcosa di reale per non impazzire. Ti trovo e poi ti perdo in una danza ipnotica e surreale, combattendo tra ragione e follia, perdendo capacità e discernimento…

E ti allontani: la tua sagoma di spalle, contornata da una lattiginosa luce bianca, cammina lentamente verso uno spazio buio e senza fine. In un altro posto, in un’altra terra, in un altro mondo, in un altro sistema, in un’altra galassia, in un altro universo, in un’altra vita!

Mi sveglio, allungo le membra con un movimento graduale e lento; i colori sono svaniti e il buio si è impossessato della luce, lasciando il posto a uno scenario diverso. La notte inizia a macchiarsi di minuscole luci di differente luminosità, il cielo stellato sopra di me non è un sogno ma una realtà. Una lacrima incontrollata forma un lungo solco sulla mia guancia, e il mio pensiero ritorna a te, chiedendosi dove sei: “Dove sei Mercedes? Meraviglioso e immacolato frutto della mia immaginazione.”

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