Non sento il bisogno di aggrapparmi a qualcuno nei momenti difficili, ma spesso sento il bisogno di avere qualcuno vicino nei momenti belli.
Un’altra storia
L’Atlantico una distesa d’acqua capricciosa come una donna, che ti ammalia con le sue lusinghe. Ti accarezza con il soffio dell’Aliseo e ti spinge leggero verso la meta, ma improvvisamente tira fuori gli artigli e diventa una fiera aggressiva e pericolosa, con sbuffi traditori e folate micidiali. Ti circonda con dolci colline d’acqua che degradano sotto la chiglia, ma senza preavviso le trasforma in montagne insormontabili e impervie, che si abbattono sullo scafo inesorabilmente, travolgendoti e trasformando il tuo sogno in un necrologio. Ma Anahita, la mia compagna di avventure, mi è stata fedele: non ha belle linee, ed è un po’ goffa, ma nonostante l’età avanzata mi ha condotto dall’altro lato dell’oceano, resistendo e sopportando continue sollecitazioni; reagendo con piglio deciso e lasciando sull’oceano una scia lunga tremila e seicento miglia. Cosa si può chiedere di più a una barca?
Dopo quattro lunghe settimane finalmente la meta: Mont Pelèe fa capolino dietro la foschia, sembra sorridere, un sorriso caraibico fatto di palme che svettano nel cielo azzurro, cosparso di fiocchi di nuvole cotonate; di lunghe spiagge bianche e assolate; di un mare turchese e cristallino abitato da pesci multicolori; del profumo di spezie sconosciute e misteriose; di Steel Band che suonano a ogni angolo di strada e da un’aria calda e accogliente che ti avvolge come in un sogno.
Ho affrontato questa traversata con l’intenzione di superare da solo l’oceano Atlantico e tra episodi piccoli e grandi mi sono aggiudicato il primo round – dopo un incontro duro e senza esclusione di colpi. Ma l’incontro non dura un solo round e sono ancora lontano dalla meta, ci arriverò in serata.
E’ buio, l’entrata è difficoltosa: un dedalo di secche e reef che sulle carte nautiche è definito “cul de sac”, non bisogna conoscere per forza il francese per capire il significato di queste parole: un budello cosparso di boe che segnalano il corridoio d’entrata del porto turistico di Le Marin. La prudenza mi consiglia di aspettare l’alba, l’azzardo mi incita a continuare; ascolto il secondo (sono stanco). Inizio a superare alcune secche seguendo attentamente le boe di segnalazione illuminate da un’intensa luce rossa: una, due, tre , quattro… dov’è la quinta? Quando realizzo l’errore è ormai troppo tardi. Uno stridìo sommerso mi fa accapponare la pelle, Anahita si blocca dando l’ultimo beccheggio in avanti e, arenandosi su un reef, resta immobile circondata da un oscuro silenzio. E’ una sensazione spiacevole, ho sentito la sofferenza della barca fin dentro le mie ossa. Il mare mi ha presentato il conto, calcolando un alto tasso di interessi. Ho abbassato la guardia e ho subìto un KO che mi ha steso al tappeto. Devo rialzarmi prima che finisca il conteggio! Provo a dare motore, prima avanti poi indietro, ma Anahita si appoggia su un lato soffrendo, e io con lei. Piango, mi inginocchio, mi dispero; sento tutto l’universo addosso. L’arbitro continua a contare… sette, otto… è finita! Aspetterò l’alba per chiedere soccorso; un sogno infranto proprio sul finale.
Mont Pelèe non mi sorride più, è avvolto nel buio, le palme, le spiagge bianche, le spezie, il mare turchese, sono scomparse dalla mia fantasia, mi resta solo il vento, caldo e costante… il vento? Che stupido, sono uno stupido! Come ho fatto a non pensarci prima? E’ una manovra rischiosa, ma possibile! Perché non tentare, tanto, male che vada, Anahita non si sposta più di tanto. Armo la randa e tiro su il fiocco e resto in attesa di un buon rinforzo di vento. Ecco! Ora! Cazzo le cime a ferro e Anahita si inclina, e, lentamente, comincia a spostarsi liberandosi dal giogo e portandosi verso acque più profonde. Un urlo liberatore si ripercuote nell’oscurità, sciogliendomi lo stress accumulato fino a pochi minuti prima. Mi sono rialzato prima che l’arbitro finisse di contare, e con un gancio ben piazzato ho abbattuto il mio avversario. Siamo pari!
Fatto l’ormeggio m’incammino sul pontile in cerca di qualcuno con cui parlare dopo tante settimane di silenzio, ma sono le tre di notte e in giro non c’è nessuno. Torno in barca, ma il sonno non arriva. Strano che dopo aver desiderato per giorni di farmi una bella dormita adesso non ci riesca.
Sono a Martinica, Anahita è ormeggiata, adesso riposa, e io veglio…
Non capisco…
Non capisco, veramente non li capisco, eppure io sto bene, sto proprio bene. Perché la gente si lamenta sempre? Perché la gente parla senza sapere…
Si sta comodi, rilassati, e la cosa più importante, si sta in santa pace.
Ho meno impegni, meno responsabilità, meno preoccupazioni e più tempo da dedicare a me stesso. Se l’avessi saputo prima l’avrei anticipato questo appuntamento, anche se, devo confessare, non ne ero convinto nemmeno io. Ma le opinioni possono cambiare; molti si ostinano a perseverare nelle loro stupide convinzioni. Io, invece, sto bene, sto proprio bene…
Certo se avessi più spazio… Ma vuoi mettere la pace e la tranquillità che il posto ti offre? La freschezza, il silenzio? No, sto benissimo!
Anche un po’ di luce non guasterebbe. Ma per farne che, poi? Mica posso leggere? E poi dove li metterei i libri… No, sto bene così, faccio lavorare di più la fantasia. Sai quanti romanzi d’avventura mi voglio godere grazie alla mia immaginazione? E poi sarò l’interprete principale.
Ecco, mi farei una birra, quella sì, ma non è possibile. Meglio non pensarci; poi la birra fa sudare e…
Devo confessare che una cosa mi manca per davvero: lo spazzolino da denti. Mi sento il deserto in bocca. In fondo non ho nessun appuntamento, quindi…
Però avere la possibilità, non dico sempre, ma ogni tanto, di fare quattro chiacchiere con qualcuno potrebbe essere una buona cosa; tanto per stare in allenamento. Ma come si fa? Non c’è spazio per due, e anche se volessi uscire sarei, costretto a spalarmi la terra da sopra…
Almeno il cuscino c’è, così non mi viene il torcicollo.
Se solo tu parlassi…
Ti ho lasciata, sembra assurdo ma l’ho fatto; sei libera ormai. E’ stata una decisione sofferta, ma non potevamo continuare…
non perché non ti amassi più, ma perché non c’era più un futuro per noi due: la gente non avrebbe capito, non avrebbe accettato e avremmo trascorso il resto della nostra vita criticati e accusati di chissà quali colpe; e tu saresti stata quella più colpita, più indifesa. Non potevo permetterlo, non potevo mettere a rischio la tua esistenza; l’ho fatto solo per te, perché ti amo.
Adesso puoi continuare la tua vita, libera di sceglierti un compagno che ti stia vicino per sempre e che ti faccia diventare madre. Io continuerò a seguire la mia squallida esistenza, osservandoti da lontano senza interferire.
Vivrò di ricordi che, sono certo, s’impossesseranno della mia mente. E mi parleranno dei meravigliosi momenti vissuti insieme; mi parleranno di quei cieli tersi che coprivano le nostre notti in montagna dove le stelle riflettevano sui picchi coperti dai ghiacciai perenni; delle magiche luci che scintillavano e si riflettevano sulle distese di prati verdi, mentre i cani abbaiavano alla luna che illuminava il mondo di argento vivo. Hai sempre avuto paura dei cani, sei sempre stata diffidente nei loro confronti; non lo manifestavi, ma io te lo leggevo negli occhi; in quei tuoi splendidi occhi neri…
Già mi manca il tuo calore; già mi manca quel tuo corpo tremulo fatto di silenzi pieni di messaggi; di movimenti leggeri e di sguardi quasi assenti. Oddio! Le notti d’amore che abbiamo passato insieme, quante sono state? Tante, ne ho perso il conto. Ogni sera ti venivo a cercare e ti trovavo là, pronta, ad attendermi. Ti parlavo di me, dei miei dubbi, delle mie paure; tu mi ascoltavi in silenzio, osservandomi senza interrompermi. Poi cominciavo ad accarezzarti lievemente il corpo, finché le mie mani non giungevano nelle tue parti più intime; all’inizio eri sempre un po’ incerta, ma poi ti rilassavi; ti aprivi a me accogliendomi nel tuo ventre, mentre le mie braccia ansiose si sostenevano sulla tua schiena; ogni tanto giravi lo sguardo e mi guardavi; quello sguardo intimo che mi invitava a continuare, e io insistevo con ritmo forsennato, finché le mie grida non attraversavano i boschi rimbalzando sui rami degli alberi ricoperti dalla notte. Tu rimanevi lì osservandomi, avvolta in quel tuo mantello di lana che ti copriva il corpo fin sotto il collo…
Purtroppo la gente non avrebbe mai capito, ci avrebbe criticati. Eppure se solo tu parlassi invece di belare…
Beerta
«Perché ti guardi intorno, cosa ti preoccupa?»
«Niente, niente… »
«E allora perché tremi?»
«Non tremo; tra poco comincia a fare buio e… »
«E allora? Di chi hai paura, del lupo cattivo?»
«Dice che mi vuole lasciare, anche se è una decisione sofferta… »
«Chi, lui?»
«Sì, dice che la gente comincia a fargli delle domande strane e che… be’ sai come vanno queste cose?»
«E allora? Scusa, non avevi detto l’altro giorno che non ce la facevi più a sostenerlo? Che era pesante e invadente e che non aveva un minimo di delicatezza nei tuoi confronti?»
«Be’ sì, ma sai com’è? Poi uno ci si abitua… in fondo non mi dispiaceva… anche se era peggio di un… caprone».
«Ma lascialo perdere, goditi le montagne; hai da mangiare, da bere; guarda quanto verde, i ruscelli… cosa ti manca?»
«Dice che comunque starà lontano da me, ma che mi penserà sempre. Che mi ama ancora e che mi ha sempre trattato meglio delle altre. Ma non invaderà più la mia privacy, e che mi augura di trovare un compagno al più presto, formare una famiglia e… »
«Bene, e allora?»
«Stamattina s’è avvicinato e mi ha detto che stasera voleva farlo per l’ultima volta… »
«Oh agnello di Dio! Ma come si fa a essere così egoista? Non c’è niente da fare questi uomini sono solo dei bugiardi, traditori, assassini… che farai allora?»
«Che devo fare? Se non lo faccio mi aizza i cani contro, e poi chissà la fine che farò… »
«Hai ragione. Be’ se è solo l’ultima volta, stringi i denti e non fiatare».
«Quello è il problema più grosso».
«Stringere i denti?»
«No; non fiatare».
«Perché?»
«Perché ogni volta che facciamo l’amore appoggia le mani sulla mia schiena, mi stringe il pelo e spinge talmente forte che io non riesco a non belare».
Spesso esitiamo…
Spesso esitiamo a percorrere strade che ci vengono indicate solo con il dito.
Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle
Eccomi qua, di nuovo sulla barca, a organizzare tutto l’organizzabile, a cercare, senza trovarlo, il punto debole che potrebbe trasformare l’avventura in una tragedia; passando le ultime ore a chiedermi se è una follia il ritorno in Atlantico da solo. È troppo forte la voglia d’avventura.
Sono pronto, la paura mi viene a trovare, le dico che non è invitata ma lei se ne infischia e diventa quasi un ospite fisso; la ignoro e mi dedico a studiare la rotta per il ritorno. Compro sette stecche di sigarette e alle 11:00 del 27 maggio parto da St. Marten — con la convinzione di aver lasciato la paura sul pontile — e faccio rotta verso le Azzorre. Duemilaquattrocento miglia da percorrere in circa ventidue giorni. La giornata è splendida l’aliseo mi accompagna con dolcezza, comincio a rilassarmi e mi accendo una sigaretta (sarà l’ultima, le altre le ho regalate agli amici).
All’improvviso il tempo comincia a cambiare: grosse nuvole si ammassano all’orizzonte, il vento aumenta e il mare s’ingrossa; riduco le vele e mi appresto a passare la prima notte insonne. Fulmini all’orizzonte, la nottata è lunga e non fa sperare in niente di buono. Provo a mangiare qualcosa, ma è impossibile; mi sento dentro una betoniera. Mi accuccio in un angolo e m’impongo di pensare a cosa fare, ma… niente, non posso fare niente, tutto quello che potevo fare l’ho già fatto. Resto in attesa, prima o poi dovrà finire.
Le notti insonni aumentano, dopo una settimana sono ancora in balìa del maltempo. Mangio quando posso, dormo come posso. I bollettini meteo sono scoraggianti: si prevedono peggioramenti. Alle Bermuda, seicento miglia dalla mia posizione, ci sono ripetuti avvisi di burrasca, mentre la perturbazione si sposta verso la mia rotta. Una barca a vela tedesca, con cinque persone a bordo, ha perso il timone e va alla deriva per l’oceano.
Toc! Toc! La paura bussa, sprango la porta, ho problemi più importanti. La barca rolla ininterrottamente, l’interno è tutto bagnato, fa freddo e sono intirizzito, cerco di coprirmi con più indumenti possibili. Le onde s’ingrossano e cominciano a frangere; qualcuna anche all’interno. La mente lavora, poi vola e si lascia trasportare dalle onde.
I minuti si susseguono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane…
L’alba del 22 giugno mi regala finalmente una giornata tersa e un mare amico. Oltre la foschia, la sagoma di Pico, una delle isole di un arcipelago sperduto in mezzo all’oceano Atlantico: le Azzorre. L’arrivo a Faial è previsto tra circa sette ore. Finalmente mi rilasso e comincio a godermi quelle rimanenti ore di navigazione tranquilla. Avvisto un gruppo di Delfini con il ventre rosa, dopo un po’ la coda di un Capodoglio che s’immerge… le Azzorre sono famose per il whale watching. Alle 14.00 arrivo a Faial, faccio l’ormeggio da solo e mi avvio verso l’ufficio della capitaneria con la sensazione di camminare sollevato da terra. Forse è il mal di terra? No, è la mia anima che vola, la tappa più dura è finita e io sono raggiante; tutto intorno a me risplende.
Il porto turistico è ben attrezzato, ottimo rifugio e meta di tutti i navigatori atlantici. Il punto di ritrovo è nel “fumoso” bar Café Sport di Peter, dove tra una birra e l’altra, in una babele di lingue, la gente si scambia esperienze e storie di mare. Il fascino di questo porto turistico si manifesta lungo tutta la scogliera frangiflutti, dove ogni equipaggio lascia il proprio disegno, perché, si racconta, se non lo fai la malasorte ti perseguiterà. I disegni sono una vera esplosione cromatica, c’è ne sono di bellissimi, di ogni forma e colore, creati da gente che viene da tutte le parti del mondo. Questa isola è in pratica la Mecca dei navigatori atlantici. Mi metto alla ricerca di colori e pennelli per assolvere al mio dovere di pittore. Il disegno fa schifo, ma va bene lo stesso. Stasera bistecca e patate fritte, le sogno da tempo.
Mi trastullo qualche giorno, poi mi dedico alla barca con perizia, mancano ancora milleduecento miglia, non bisogna abbassare la guardia. Decido di fare una tappa intermedia, da Faial a Sao Miguel di centocinquanta miglia, poiché il tempo non mi convince.
Giunto, finalmente, a Sao Miguel dopo un’ulteriore prova di forza, riorganizzo la barca giacché l’ultimo tratto mi ha “rimescolato gli interni” e resto in attesa alcuni giorni di un bollettino meteo favorevole. Dopodiché mi rimetto in navigazione per altre mille miglia verso la mia ultima tappa.
Ricomincia il ballo: pioggia, vento forte, onde alte; musica già ascoltata. Più vado avanti e più peggiora. Oltre al maltempo devo stare attento anche alle navi, che in questa zona incrociano a centinaia, e di tutte le dimensioni. Stringo i denti e subisco senza fiatare.
Anche in questo tratto l’oceano ha messo a dura prova sia me sia la barca. Il mare grosso e il vento forte, mi hanno fatto stare in pena, sulla mia rotta sono riuscito a evitare due brutte depressioni. Alla fine la depressione ha colpito anche me, ma non quell’atmosferica.
Dopo cinque giorni sono stremato, decido di puntare su Lagos in Portogallo, è più vicino. Ci arrivo di notte, e per la mia negligenza rischio pure di andare a scogli. Passata la paura, resto in zona in attesa che anche questa perturbazione passi. Mancano solo cento miglia per il Mediterraneo e finalmente il 7 luglio si chiude il cerchio, sono a Gibilterra.
Mentre sono disteso al sole mi viene in mente una scena della mia infanzia: ero piccolo e stavo al mare con i miei, mio padre m’incoraggiava a entrare in acqua per insegnarmi a nuotare, ma io ero spaventato e gli dicevo: «Papà non ci riesco, ho paura».
E mio padre: «Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle».
L’incidente
I due sono appoggiati vicino alle portiere dell’ambulanza.
– Vedrai quanti cadaveri incontrerai sulla tua strada, specialmente i fine settimana. Gli sta dicendo quello con i capelli bianchi accendendosi una sigaretta. E’ un tipo tozzo, con il tono di voce che dà ai nervi. L’altro, un giovanotto alto e pieno di brufoli, scuote la testa in segno di assenso.
– Questo è il tuo primo giorno di lavoro e già lo battezzi con un incidente mortale, cominci bene ragazzo! Dice il tozzo, sbuffando fumo solo dal naso. Percepisco chiaramente dal suo modo di fare, che si sente padrone della scena; un’occasione ghiotta per farsi bello davanti a qualcuno che ne sa meno di lui. E, senza esitare, continua nel suo monologo.
– Ricordo una volta che tirammo fuori due corpi da una macchina schiantata contro un albero. Ci misero tre ore i pompieri a tagliare le lamiere di quella cazzo di macchina, talmente che era accartocciata. Tirammo fuori prima il corpo di lei, quasi irriconoscibile… poi quello di lui. Al che notai che lui c’aveva la patta dei pantaloni aperta. Sulle prime non ci feci caso, sai negli scontri scoppia tutto oltre all’airbag… incredibile! Ogni volta che ci penso mi viene da ridere… insomma, lui aveva la patta dei pantaloni aperta e mi accorsi che c’era molto sangue là, in quel posto, sai? Mentre stavo là a cercare di capire per quale cazzo di motivo lui c’aveva tutto quel sangue, Franco, il mio vecchio collega, un gran simpaticone, mi chiama e mi fa: «Hei Peppe! Vieni un po’ a vedere… », mi avvicino al corpo di lei, mentre Franco s’infilava i guanti di lattice. Bisogna sempre tenere i guanti di lattice ragazzo, ricordati; non si può mai sapere che tipo di malattia c’hanno… specialmente questi drogati del fine settimana. Dunque dicevo: Franco apre la bocca alla donna e… indovina cosa ne tira fuori? Dài, indovina! Non ci crederesti mai, eheheheheh. Un cazzo! Lei aveva la metà del cazzo di lui in bocca. Capisci? Ogni volta che ci penso mi scompiscio dalle risate. Un cazzo… incredibile! Quella troia gli stava facendo un pompino e sono andati a sbattere contro l’albero, ci pensi? Mio Dio che ridere; ne abbiamo parlato per un mese. La risata del tozzo continua a risuonare tra gli alberi ai lati della strada.
A questo punto mi chiedo perché continuano a stare là, fermi, senza fare niente, e la risposta la dà indirettamente il tozzo, come se avesse letto nel mio pensiero.
– Ma quanto ci mette il furgone mortuario ad arrivare? Prendi questo povero cristo a terra, per esempio, chissà quale stronzo l’ha investito ed è poi scappato. Guarda le scarpe; lo sai perché le scarpe si staccano quando uno viene investito? Chiede il tozzo, sempre più felice di essere fonte di conoscenza per quel povero ignorante.
Il brufoloso scuote la testa in segno di diniego.
– Per lo schianto forte, sono le prime cose che volano via quando uno viene investito, capisci? Ricordati, quando vedi le scarpe sull’asfalto significa che non c’è più niente da fare. Dice il tozzo, accendendosi un’altra sigaretta.
– Volano via come l’anima. Dice il brufoloso rivolto verso il cielo.
– Finalmente! Ecco il furgone. Dice il tozzo, buttando la mezza sigaretta.
E’ tempo di andare anche per me. Passo a fianco al mio corpo disteso sull’asfalto, poi mi soffermo a guardare le scarpe. Le avevo appena comprate.
Chinook
“Chinook?… Che vuol dire? Sembra una marca di salmone affumicato“, disse lei.
“E’ un vento, un vento caldo che dal Canada attraversa le praterie del nord America”, rispose lui disteso sul divano, mentre cercava di far funzionare il telecomando battendolo sul ginocchio.
“E che c’entra il vento con quello di cui ti sto parlando?” Disse lei strofinandosi la fronte.
“Niente, mi è balzata in testa la parola e l’ho detta”, rispose lui. L’aveva sentita alla televisione poco prima che lei arrivasse. E stranamente continuava a ronzargli in testa come un elicottero.
“Mah! Mi sa che c’è qualcosa nella tua testa che non va. Dovresti farle una messa a punto. Conosco un buon meccanico dei cervelli se vuoi”, disse lei ironica.
“Non essere spiritosa, c’è poco da sfottere. Guarda te invece. Credi che il mondo sia avvolto dalle fiabe… ”, disse lui cambiando canale continuamente.
“Ma non puoi, improvvisamente uscirtene con una parola che non c’entra niente col discorso che stiamo facendo. E’ assurdo!” Disse lei, incrinando il tono della voce.
“Niente è assurdo. Ho solo dato aria alla mia immaginazione, nient’altro” disse lui, continuando a battere il telecomando sul ginocchio.
“Dai aria alla tua immaginazione e contesti la mia fantasia? Sei un presuntuoso!” Disse lei unendo i lunghi capelli in una coda, mentre lisciandoseli tirava fuori quelli morti.
“Hai ragione…”, rispose lui, agitando il telecomando verso il televisore come un tubo dell’acqua.
“E non darmi ragione… mi fai incavolare di più. Mi dai ragione e lasci le parole sospese solo perché non hai argomenti!” Disse lei mettendosi tra lui e il televisore con le braccia sui fianchi.
“Sì, vabbè… spostati”.
“ Mi sono scocciata dei tuoi silenzi e delle tue mezze parole… guardati, ormai ti sei divanizzato completamente, hai preso pure il colore del divano!” Disse lei, puntandogli un dito contro e rimanendo nella stessa posizione.
“Sei pedante… ” ,
“Sarò pedante, ma tu sei un povero illuso che è convinto di sapere tutto, e sputi fuori parole solo per dimostrare che ne sai più degli altri! Chinook! Chinook un cazzo!”
“Esco…” sbottò lui, alzandosi di scatto, mentre gli incisivi gli martoriavano il labbro inferiore.
“Sì esci, esci, fai bene a uscire brutto stronzo. Anzi, fai una cosa, non tornare mai più! Ne ho piene le tasche della tua erudizione del cazzo! Impotente!”
Lui si girò di scatto e attraversò il corridoio a grandi passi – un nervo ribelle iniziò a pulsargli sull’occhio destro. Aprì lo sgabuzzino e da dentro la cassetta degli attrezzi tirò fuori un grosso martello; tornò sui suoi passi e la trovò in cucina che guardava dentro il frigo; alzò il martello verso l’alto e scattò per colpirla. Un grosso coltello da cucina balenò nella mano di lei, colpendolo ripetutamente al ventre; la sorpresa fu l’ultima cosa che rimase impressa nello sguardo divanizzato di lui.
“Chinook un cazzo!” Gridò lei. Prese il telecomando e glielo ficcò in bocca.
La donna del fiume
Era una giornata soleggiata, ideale per una passeggiata immersa nella natura. Il fiume era illuminato da mille riflessi argentei che, impudenti, le si riverberavano negli occhi, riparati da grossi occhiali da sole. Aveva lasciato i pensieri a pascolare liberi, facendosi condurre dai piedi che, tranquilli, seguivano il serpeggiare del fiume. Si sentiva serena, circondata da tutto quel verde. Se l’era meritata proprio quella giornata dopo tanto intenso lavoro. Quel posto le era sempre piaciuto, le faceva venire in mente immagini fuggevoli, ancora impolverate nella soffitta della sua mente; avrebbe voluto fissarle meglio quelle immagini, colorarle, darle più luce, come i riflessi del fiume…
Venne distolta da una strana sensazione di disagio: si sentiva osservata. Si guardò intorno, ma non vide nessuno. Un malessere strano s’impadronì del suo corpo: una vibrazione forte e sgradevole. Prese coscienza di trovarsi da sola in un posto isolato e rapida imboccò il sentiero che portava al parcheggio. Improvvisamente il rumore di foglie secche, proveniente da dietro un intricato muro di cespugli, la fece sobbalzare; qualcosa si mosse oltre le piante, si girò con i nervi tesi pronta a reagire. Vide un’ombra che si celava tra i rami; scattò come una molla, saltò un tronco e s’infilò tra gli alberi. Si sentiva inseguita da passi veloci che calpestavano i rami e le foglie con rapidità, ma il suo fisico agile distaccò quei rumori sinistri e raggiunse il parcheggio.
Tornò a casa che ansimava ancora: era sconvolta. Chiuse bene la porta d’ingresso, poi controllò le finestre e i balconi e, infine, si distese sul divano rabbrividendo.
Si svegliò completamente zuppa di sudore, il sogno era stato intenso e terribile. Sentiva ancora il fiato dell’uomo che le rimbombava nella testa e, stranamente, ne sentiva anche l’odore, uno strano odore che le ricordava qualcosa, ma che non riusciva a definire. Com’è possibile? – Pensò. Mise il latte sul fuoco, tirò fuori la scatola dei cereali e accese la televisione per il notiziario del mattino. C’era qualcosa nella sua mente che non quadrava, la sua percezione stava cercando di comunicarle qualcosa, ma cosa? – Si chiese.
L’uomo col microfono stava intervistando un tizio che mostrava un punto vicino alla riva del fiume, esattamente dove si trovava lei. Ma quando? Nel sogno o il giorno prima? Non riesco a capire – si disse. Alzò il volume del televisore, ma l’intervista era finita.
Accese il computer e si collegò sul sito di un quotidiano. «All’alba di questa mattina è stato trovato il corpo, non ancora identificato, di una donna nuda. Il cadavere era nel fiume a poca distanza dalla riva. La donna aveva segni di violenza lungo tutto il corpo». La puzza di gas la fece emergere dallo strano torpore in cui era caduta; corse in cucina, ma urtò il mobile e fece cadere una cornice, si fermò solo un attimo e poi continuò; girò la manopola del gas e aprì il balcone; prese uno straccio e pulì velocemente il latte che si era riversato sul fornello; richiuse il balcone e tornò indietro a raccogliere la cornice: la foto la ritraeva sorridente con una gardenia nei capelli e con in braccio il suo gatto. Chissà dove sta Sciùsciù, è da ieri che non lo vedo – pensò. Passò il resto della giornata alla ricerca di notizie sulla morte della donna del fiume. La polizia non era ancora riuscita a identificarla; le uniche notizie certe erano che era stata violentata e che poteva avere dai venticinque ai trent’anni, altro non si sapeva, anche perché il corpo era in avanzato stato di decomposizione e il viso era stato martoriato dai topi. Ormai era ossessionata da quel delitto: passava le ore ascoltando telegiornali e scandagliando internet alla ricerca di informazioni sull’assassino. Il terrore si trasformò in odio, un odio profondo che la tenne sveglia tutta la notte, china davanti al monitor a scrutare nella rete in cerca di tracce. Le immagini del corpo di quella povera donna le saettavano nella mente come tanti flash; era come se la morte di quella giovane la coinvolgesse in prima persona. L’alba la sorprese addormentata con la testa sulle braccia distese davanti al monitor. Si alzò e si diresse in cucina; prese la scatola dei croccantini per Sciùsciù, ma vide che la ciotola del gatto era ancora piena. Si versò un bicchiere di latte direttamente dalla bottiglia presa dal frigo. Tornò alla scrivania e avviò il computer; era ancora in piedi mentre aspettava che la pagina diventasse leggibile. Il bicchiere le cadde di mano con un rumore che rimbalzò fin dentro la profondità del suo essere: «La donna del fiume ha finalmente un volto». L’immagine sorridente di lei con una gardenia nei capelli e con in braccio Sciùsciù invase il monitor.