Prima colazione

La forchetta dava una sensazione di incertezza, messa lì, sospesa a mezz’aria. Lo spicchio di pesca, infilato tra le punte di quell’attrezzo un po’ troppo lucente, sembrava un quarto di luna vestito di sole; sullo sfondo un seno maturo, pronto; pieno di calore e promesse di godimento.
No, non erano solo quelli i dettagli: c’era il viso con le labbra socchiuse che creavano una leggera e piacevole increspatura sulle guance. C’erano gli occhi felini e invitanti – separati da un naso gentile – che osservavano desiderosi…Ma la forchetta e il seno s’irradiavano come un fuoco divampante aggredendogli l’anima spudoratamente; quelle forme gli esplodevano direttamente nella mente come schiaffi sonori. Non riusciva a distaccarsene. Cercò di apprezzarne l’insieme, valutando la qualità del quadro, anche se non gli sembrava un gran che come opera. Si rese conto che l’autore avrebbe voluto imprimere al dipinto una certa luce magica, ma che si era lasciato prendere la mano nell’intento di marcare troppo i particolari…

Il gallerista si avvicinò con discrezione «Le piace? S’intitola Prima Colazione; un’opera di un autore italiano ancora poco conosciuto, ma con grandi doti», disse con un cortese sorriso.

«Lo compro», rispose lui senza girare lo sguardo.

«Bene. Il quadro è una tecnica mista… »

«Lo compro», l’interruppe lui guardando sempre il quadro.

«Ma… sì, certo signore. Dove glielo mando?»

«Lo porto via subito», disse lui finalmente guardandolo, come se fosse appena uscito da una specie di trance.

Il quadro era abbastanza grande, ma non tanto da impedirgli il trasporto fino a casa. Infilò la chiave nella toppa, e per la milionesima volta si disse che doveva farla regolare quella cosa cigolosa e pesante. Scartò il quadro e lo tenne sospeso tra le mani osservandolo attentamente. Dietro c’era scritto il titolo, la tecnica e l’anno. Staccò un quadro dal muro e vi appese quello nuovo; si mise seduto e restò a fissarlo. Dopo un po’ spense le luci, si avvicinò al quadro, lo tolse dal muro e lo portò in camera da letto. Con molta cura s’infilò il pigiama, abbottonandolo premurosamente fin sotto il collo, e controllando che i bottoni combaciassero perfettamente con le asole; appoggiò il quadro delicatamente sul letto a fianco a lui, leccò lo spicchio di pesca e si addormentò con il braccio sul seno di lei.

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Long leg

Il faro spuntava da un punto sabbioso del litorale, leggermente ondulato da rena fine e bianca, che sfumava nel grigio. La solitudine del posto e il silenzio contrastava con la sonorità dei colori del paesaggio. Quella melodia cromatica era comparabile a una musica lontana e silente, oltre la quale c’era l’oceano azzurro e sconfinato, che si fondeva all’orizzonte con il bianco celeste del cielo. Una piccola barca con le vele latine consunte dal tempo, si faceva strada a fatica lungo la costa, beccheggiando vistosamente.
A bordo un uomo, la cui età era un mistero anche per se stesso, manovrava con disinvoltura le scotte arse dal sale. Lo sguardo, rivolto verso l’infinito, era contornato da una folta barba canuta dalla quale spuntava una pipa ottenuta da una strana conchiglia a forma di siluro. Era l’unico essere vivente nel raggio di duecento miglia.

Gambalunga – così era chiamata quella striscia di sabbia – ormai era stata abbandonata. La gente aveva lasciato quel pezzo di terra desolato anni addietro. Un posto arido dove l’unico contrasto di colore con le dune, lo dava il verde tetro di alcuni bassi cespugli di conifere. L’uomo si girò verso il faro – con la recondita speranza di vedervi affacciato il guardiano con il suo grosso binocolo. Alzò il braccio in segno di saluto, mentre nella sua mente un cane abbaiava scodinzolando lungo la battigia, rincorso da un bambino dai capelli biondo cenere che cercava di trattenere un aquilone rapito dal vento. Ma non ricevette alcuna risposta. Ricordava benissimo quel bambino che si costruiva gli aquiloni con la cartapesta e la colla di merluzzo. C’era ancora qualche alberello a quei tempi, e lui andava sempre alla ricerca dei rami più sottili e leggeri per farne intelaiature per gli aquiloni. Anche il cane ricordava benissimo: un bastardino pezzato che era il suo compagno di giochi. Sì, si ricordava benissimo di Scuffia. E di quell’omone grande e grosso col suo grosso binocolo che si appoggiava alla balaustra ogni volta che usciva fuori a controllare il mare. Ricordava anche la moglie del guardiano del faro: piccola e minuta, sempre indaffarata, che lo riprendeva sempre ogni volta che tornava a casa con le ginocchia sbucciate. Come poteva dimenticare i propri genitori? Come poteva dimenticare se stesso? E, alzandosi il bavero, si rintanò di nuovo nel suo mondo galleggiante.

La tappa era lunga: tre giorni di oceano insidioso in solitudine; tre giorni di veglia e di spruzzi di sale conditi da riflessioni profonde. La piccola barca era ormai vecchia, il legno scricchiolava troppo e da più parti faceva acqua. Aveva bisogno di essere messa a secco e calafatata completamente. Andavano sostituite le vele e le sartie, e chissà che altro ancora. Ma non aveva né la forza né la voglia di farlo. Ormai i tempi erano cambiati, avevano accelerato e lui era rimasto indietro; solo su quel pezzo di terra sabbiosa lontano duecento miglia dalla civiltà. Guardò avanti: l’estremità del capo era vicina. «E’ l’ultimo viaggio, è l’ultima lunga tappa», si disse. Ormai la decisione era stata presa: voleva dirigersi sul continente, unirsi ai suoi simili, mischiarsi in mezzo alla gente. Poteva trovare un lavoro, per esempio, poteva insegnare ai giovani l’arte della navigazione, come fare i nodi, come pescare i tonni. E passare le serate alla locanda a ingozzarsi di birra spillata e raccontar di mare. Ecco cosa stava per fare. «E’ l’ultimo viaggio, è l’ultima lunga tappa», ripeté.

Le prime onde dell’oceano aggredirono la prua e cominciarono a far impennare la piccola barca. Ebbe un momento di forte sgomento: un pensiero tetro gli attraversò tutto il corpo e si rintanò nella parte più recondita del suo io.«Sono vecchio ormai!» disse al vento.

E dal suo feudo di legno si preparò a invadere il mare.

Le onde baciavano con veemenza la costa del continente portando a riva i resti di una piccola barca con qualche pezzo di vela latina. Tra le sartie vi era incastrata una pipa ricavata da una conchiglia a forma di siluro.

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Miranda e la tempesta

La tempesta era arrivata al massimo della sua forza distruttrice, le onde erano diventate alte e frangenti. Miranda, appoggiata a uno scoglio basso, cercava di trattenere i lunghi capelli che le impedivano di guardare verso il mare; mentre una mano istintivamente andava al cuore – come se volesse con essa sostenere l’emozione di quel momento tragico di tensione. La caravella era ormai segnata: grossi cavalloni stavano portando a riva i primi pezzi di pennoni strappati via dalla tempesta. Il vascello non riusciva a superare il vento, che impetuoso, veniva spinto verso le rocce. Miranda stava lì, ipnotizzata dalla scena, e nonostante non fosse esperta di vento e di mare, sapeva che presto la caravella si sarebbe rovinosamente distrutta sugli scogli. Un alto promontorio si ergeva incombente sulla rotta della nave, che cercava di guadagnare il largo risalendo la furia del vento. Ma le onde gigantesche la costringevano sempre di più verso quella sporgenza mostruosa. Miranda era atterrita, la scena aveva un che di surreale, tutto sembrava fermo, come in un dipinto del primo novecento. Dove il respiro di lei era l’unica cosa che facesse rumore in quella tempesta. Lo scricchiolio assordante seguito da un’esplosione di fasciame annunciò l’avvenuta catastrofe, che ruppe quel silenzio metafisico. Nel giro di pochi secondi, in quella zona sotto il promontorio, erano rimaste solo le onde. L’angoscia di Miranda si manifestò con un lungo e profondo grido di dolore. S’inginocchiò e pianse fino a prosciugarsi gli occhi – su quella spiaggia fatta solo di rocce che erano tutt’uno con il colore dei suoi capelli.

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