Ecco!

Ho navigato nella vastità degli oceani seguendo rotte sconosciute.

Ho sofferto la fame, la sete, il sonno, la solitudine.

Ho imparato a interpretare gli eventi atmosferici.

 Ho imbrigliato i venti, cavalcato le onde, rincorso le nuvole.

Ho imparato a usare la pioggia e il sole.

Ho tessuto vele, ho impalmato corde.

Ho piegato l’acciaio e trasformato il legno.

Ho separato il sale dall’acqua, la pelle dai muscoli, la carne dalle ossa.

 Ho ucciso.

Ho visto gli iceberg, le balene, le orche, gli albatros…

Ho sempre evitato la terraferma e i suoi infidi scogli:

trappole che imprigionano e rendono schiavi.

Ho sempre guardato a prua, là, verso l’orizzonte.

La mia pelle è cotta di sole e di sale. I miei occhi arsi dal mare,

i miei piedi deformi;  sempre in cerca di equilibrio.

Le mie mani piagate da mille ferite.

Adesso le mie membra sono stanche…

Ecco! Un’isola.

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Supplice

«Sono tuo supplice» disse lui inginocchiandosi. E poggiò la fronte sulle ginocchia di lei.

«Allontanati, non mi toccare!» Rispose lei scalciando nervosamente e colpendolo al viso.

Un piccolo rivolo di sangue si fece strada da una narice, ma lui non ci badò.

«Ti prego… ti prego amore perdonami… » disse lui avvicinandosi in ginocchio.

«Ti ho detto che non mi devi toccare! Hai capito?!» Disse lei correndo in camera da letto e sbattendo la porta.

«Ti giuro cucciola, non era mia intenzione… » disse lui rincorrendola sempre in ginocchio.

«Dài, apri la porta, facciamo pace… ti prego, dài!» Supplicò lui.

«Vattene via, sei spregevole… » disse lei singhiozzando.

«Dài, non piangere, ti prego… cucciola. Ti giuro non lo faccio più» disse lui appoggiandosi con la schiena alla porta chiusa e massaggiandosi le ginocchia che gli bruciavano. Si guardò intorno: il salone era disseminato di piatti rotti, vasi fracassati, libri dispersi sul pavimento e quadri che pendevano da un lato; sembrava che ci fosse passato un bulldozer impazzito. Questa volta l’aveva fatta grossa – pensò. Mentre i singhiozzi di lei si facevano a mano a mano sempre più lievi. Si sta calmando, meno male – si disse. Si strofinò con il dorso della mano la narice, osservò il sangue con curiosità, come se non fosse suo; si puntellò con le braccia e si alzò da terra. Avvicinò l’orecchio alla porta, cercando di individuare qualche rumore che gli indicasse lei cosa stesse facendo e, con un leggero tocco, bussò due volte alla porta.

«Cucciola, per piacere puoi aprire la porta? Vorrei parlarti… ti prego»

«Non hai considerazione di me, non hai rispetto… » disse lei, ancora con un debole singhiozzo.

«Amore ti prego, mi fai soffrire moltissimo così. Ti prometto che non lo faro più, lo giuro!» Incalzò lui intuendo uno spiraglio di speranza nella risposta di lei.

«Facciamo così: tu apri la porta e ne parliamo, ti prometto che non entro, voglio solo parlarne… va bene?» Continuò lui, ripassandosi il dorso della mano sotto il naso, ed eliminando gli ultimi residui di sangue raggrumato sopra il labbro.

Sentì la chiave della porta girare e la vide comparire dietro lo spiraglio.

«Come hai potuto?» Disse lei con le guance rigate dal trucco.

«Come hai potuto essere così insensibile… » continuò lei.

«Amore basta, non continuare ti prego, mi stai torturando… ti chiedo perdono… » disse lui con un singulto incontrollato.

«Perdono? Come se chiedere perdono cancellasse la tua azione ignobile. No mio caro, questa volta non te la cavi così facilmente, questa volta sarà l’ultima! Giuro su Dio! La prossima volta che non metti il tappo al dentifricio ti lascio definitivamente».

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Gli ho dato un taglio.

Il buio si stava allontanando, sbadigliando dietro l’orizzonte, cominciai a intravedere la sagoma lattiginosa di un’alta propaggine. La radio iniziò a gracchiare suoni incomprensibili, poi una voce metallica diramò il bollettino nella lingua dei marinai: “… vento da nord est con rinforzi  fino a trenta nodi, mare da mosso a molto mosso… ”  Ammainai la randa, ridussi il fiocco e continuai verso l’imponderabile.

Poco dopo le prime sventagliate d’aria iniziarono a colpire Anahita facendola rollare pesantemente: mi trovavo nel canale che univa Gran Canaria e Tenerife, i cui  rilievi creavano un canyon sul mare alto oltre tremila metri. Il vento, incuneandosi tra quelle  elevate pareti vulcaniche, accelerava fino a raddoppiare quasi la velocità. Anahita cavalcava l’onda con fatica sotto le raffiche incessanti, e io pregavo di superare al più presto quel passaggio infernale. Ma uno schianto feroce fece tremare Anahita in tutta la sua struttura, facendole perdere la stabilità – mentre cominciava a ruotare su se stessa. Guardai verso prua e mi resi conto del disastro subìto dalla mia compagna di viaggio: lo strallo di prua si era completamente sradicato dalla coperta, strappando quel poco di vela che la teneva in asse. Ormai eravamo preda dei marosi. Legai la cintura di sicurezza e corsi a prua armato di coltello per liberare l’albero da quel groviglio di tela e cime. Ma la violenza del mare non ci dava tregua: le onde si susseguivano incalzanti, in un mare turbolento e insidioso, abbattendosi su di noi senza pietà. Lottai in un equilibrio instabile contro quella forza della natura che mi faceva cadere sul ponte ad ogni ingavonata; mentre la sorte mi stava preparato un brutto scherzo: il coltello – come se avesse posseduto una volontà propria – tagliando l’ultima cima, continuò la sua corsa verso il basso e mi accorsi, in un misto di stupore e spavento, che mi ero procurato una ferita lunga e profonda sulla coscia sinistra, a poca distanza dall’arteria femorale. Paura mista a rabbia attraversarono il mio corpo con un tremito irrefrenabile, seguito da alcuni attimi in cui neanche il frastuono della burrasca si sentiva in quella quieta perdita di contatto con la realtà. Uscii da quel breve limbo e misi in sicurezza l’attrezzatura e, dopo aver annaffiato il ponte con il mio sangue, legai una cima sopra la ferita per fermare quel sacro fluido che  trattiene la vita. Ero a trenta miglia dalla costa con mare in burrasca, grosse onde ci investivano senza sosta, martellandoci continuamente. Folate raccapriccianti ululavano tra le sartie prive di vela, Anahita tremava mentre io ero sul punto di perdere coscienza. I minuti passavano lenti, ci mettevano secoli per formare un’ora, guardavo l’orologio con la netta sensazione che retrocedesse. Il mare ormai era diventato bianco, un bianco terrificante, mentre Anahita suonava clangori funerei sotto le raffiche insistenti.

E dopo molti secoli giunsi in vista del porto di Los Cristianos, allertai la Capitaneria descrivendogli le mie condizioni fisiche – se avessero saputo anche di quelle mentali oltre all’ambulanza avrebbero mandato anche una camicia di forza: ero furioso e incattivito dalla tensione e condannavo la mia stupidità. Sono convinto che il terzo principio della Dinamica che afferma: “A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”  si possa applicare al mare, con una piccola variazione: “A ogni azione corrisponde una reazione doppia e contraria” . Il mare ti castiga con gli interessi a ogni superficialità commessa.

All’imboccatura del porto vidi un capannello di gente incuriosita vicino all’ambulanza, ma a questo punto necessita una descrizione minuziosa delle mie sembianze: avevo una cerata gialla tagliata e macchiata di sangue, il contrasto tra i due colori era impressionante. La barba incolta, le occhiaie e il viso sporco di sangue rappreso non contribuivano per niente a darmi un aspetto gradevole. Inoltre la cima intorno alla coscia mi faceva deambulare con difficoltà. Il tutto mi dava un aspetto strano: sembravo uno zombie indemoniato.

Un infermiere comparve tra la folla che si aprì come le acque del mar rosso, e facendomi adagiare sulla barella mi chiese: «Quiere beber?». «Sì, una cerveza!», risposi. Era l’unica cosa che desideravo in quel momento.

Dopo un numero imprecisato di punti di sutura e un numero imprecisato di ore al pronto soccorso, tornai in barca come un cane bastonato. Quella notte non chiusi occhio; c’era un solo pensiero che mi ronzava in testa: che, per via dell’incidente, avrei dovuto rinunciare a fare la traversata dell’Atlantico. Ero molto abbattuto. Le telefonate degli amici non mi aiutavano certamente a risollevarmi: tutti mi consigliavano di abbandonare l’impresa.

Il giorno dopo mia moglie era a Tenerife, mi  guardò negli occhi e, sapendo cosa mi passasse per la testa, mi disse: «Vai, continua, realizza il tuo sogno perché sono sicura che ci riuscirai.»

La barca ora è a Martinica nelle Antille Francesi, ma questa è un’altra storia.

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