Calano le notti umide.
Spruzzi di plancton lucente.
Qualche stella brilla più delle altre.
Giove rincorre Venere che si nasconde sotto l’orizzonte.
Intanto i giorni scivolano sull’Atlantico.
Sono resistente all’acqua fino alla gola
Calano le notti umide.
Spruzzi di plancton lucente.
Qualche stella brilla più delle altre.
Giove rincorre Venere che si nasconde sotto l’orizzonte.
Intanto i giorni scivolano sull’Atlantico.
Quella distesa d’acqua infinita oltre l’intricata foresta di alberi sembrava ribollire a mano a mano che il sole si mostrava. L’uomo restò fermo, incantato da tutta quella struggente meraviglia. Il tintinnio delle sartie gli ricordò che era un navigatore che non naviga da tre anni, e che da tre anni aveva superato i cinquanta.
Il suo occhio si librò lentamente sopra il mare attraversando il Mediterraneo fino a Gibilterra; gradualmente passò sulle Canarie; giunto a Capo Verde aumentò la velocità superando l’Atlantico; fece un largo giro sui Caraibi e poi si diresse verso Panama; cabrando sulle Galapagos si tuffò nel Pacifico; rimbalzò come un sasso sull’oceano in prossimità della Polinesia; sorvolò l’Australia e la Nuova Zelanda planando sull’Antartide. Giunto lì si riposò un poco, osservando con mesta curiosità una vecchia stazione baleniera abbandonata. Dopo aver dato uno sguardo a Capo Horn, avido e irrequieto, il suo occhio puntò verso il cielo attraversando la troposfera; gradualmente passò alla stratosfera; giunto fuori all’esosfera si fermò e osservò la Terra dall’alto imbellettata da un’aura azzurra – sospesa in un silenzio cosmico. Sempre più assetato, il suo occhio sbirciò verso lo spazio esterno: raggiunse Marte ammirando la fredda bellezza di quel pianeta color ruggine e i suoi misteri; fece un largo giro intorno a Giove incantato dalle dimensioni del gigante; poi verso Saturno e i suoi splendidi anelli; superò Urano, Nettuno, e giunto nei pressi di Plutone ebbe un attimo di esitazione. Si volse indietro per l’ultima volta e si avventurò verso gli spazi siderali.
E’ buio, sagome scure dai contorni vaporosi avvolgono la signora della notte. Ogni tanto s’illuminano squarciando il buio con saette accecanti, poi un successivo basso brontolio mi avverte che la natura sta ancora sfogando la sua collera.
Ci troviamo all’imboccatura del porto di Tangeri, alle estreme propaggini del continente Africano, siamo appena usciti indenni da un’infida burrasca. Il vento picchia ancora forte ruggendo sull’attrezzatura di Anahita, che nonostante sia priva di vele, rolla con preoccupanti inclinazioni, almeno adesso siamo al riparo dalle onde. Mi sono accorto di non avere la mappa particolareggiata del porto, il che significa che è come trovarsi in un labirinto, al buio, dove non si riescono a definire neanche le pareti. Procediamo attenti, ma con difficoltà, il motore ringhia per l’alto numero di giri che sono costretto a dargli per tenere Anahita in rotta. Mi guardo intorno cercando di capire dove dirigermi, ma una moltitudine di luci riflesse sull’acqua mi confondono senza darmi la possibilità di individuare un bacino adatto alle barche da diporto. Vedo solo navi che sembrano enormi palazzoni illuminati a giorno che galleggiano sull’acqua smossa dal vento forte, nonostante l’apparente densità oleosa e la puzza che mi offende le narici. Sembra strano, ma sto pensando seriamente di virare e ributtarmi nella burrasca, credo però che Anahita ne uscirebbe danneggiata.
Là, una luce verde all’inizio di un braccio che si allunga fino a toccare quasi la banchina delle navi porta container. Veloce dirigo da quella parte, ma non si vede niente, solo le solite luci che si confondono in contorni di qualsiasi forma. Agguanto il binocolo con una mano, mentre con l’altra cerco di tenere il timone dritto per non andare a sbattere contro la banchina. Il terrore mi attraversa tutto il corpo, e sembra che continui la corsa trasmettendosi anche ad Anahita, che vibra tutta.
Un’entrata secondaria sembra indicarmi la possibilità di un’ulteriore insenatura, ci infiliamo all’interno con la speranza di aver imboccato il bacino giusto. Sono stanco, la burrasca mi ha messo in ginocchio, Anahita se l’è cavata bene: si è scrollata da dosso quei perfidi flutti che cercavano di trattenerci tra le loro grinfie. Siamo stati ghermiti dall’oceano e poi ributtati indietro come un pezzo di polistirolo; ora siamo molto provati. E’ stato un battesimo di fuoco, anzi per essere precisi una cresima, e lo schiaffo non è stato per niente leggero.
Anahita avanza rapida, mentre la paura mi assale: sono in un porto sconosciuto, al buio, sotto raffiche di cinquanta nodi, perso in un labirinto di darsene e col motore a pieni giri per contrastare il vento. Al primo errore siamo a scogli!
Non ce la faccio più, sono a pezzi, ho le braccia indolenzite dallo sforzo, mentre le gambe non riescono più a sopportare il peso del corpo. Sono infreddolito e tremante e col morale sotto il livello del mare.
Finalmente intravedo alcuni alberi di barche a vela, ma non riesco a capire da dove passare. Vado avanti e dopo un po’ individuo un altro braccio che si apre a sinistra – pieno, per la maggior parte, di pescherecci d’alto mare: neanche loro sono usciti questa notte. Procedo in quella direzione e in fondo intravedo, sotto una luce gialla, degli spettri che si sbracciano. Un lampo di trionfo m’ illumina il viso e punto, senza esitare, verso di loro. Alcuni uomini mi fanno cenno di accostare vicino ad altre barche a vela messe l’una a fianco all’altra, mi avvicino facendo ruggire il motore per contrastare la forza del vento – che non ne vuol sapere di mollare. Una decina di persone saltellano sopra le barche fino a raggiungere la più esterna. Lancio la cima di poppa e riprendo il timone manovrando per contrastare l’abbrivio di Anahita, e STUMP! In rumore atroce mi penetra fin dentro il DNA, mentre il motore si ferma. Capisco immediatamente l’origine della tragedia: la cima si è attorcigliata intorno all’elica. Mi volto e vedo due marocchini che litigano in un misto di arabo e francese accusandosi a vicenda. Le imprecazioni inviate da me all’indirizzo dei due sono simili a una raffica di mitra inarrestabile. Intanto Anahita inizia ad allontanarsi spinta dal vento, e io vado in panico.
Eccomi qua, di nuovo nei guai, devo agire immediatamente prima che andiamo a sbattere chissà dove. Prendo una lunga cima, ne do volta un’estremità, e mi tuffo nelle acque buie e puzzolenti del porto. Metto la cima tra i denti e con lunghe bracciate raggiungo le barche ormeggiate, ma perdo la presa e vado sotto annaspando nell’acqua lercia, mi dibatto cercando di risalire e guadagnare aria, ma la cerata mi fa da zavorra e mi tiene sotto contro la mia volontà. Tolgo velocemente la giacca e allungo un braccio verso l’alto disperatamente, mentre con l’altro nuoto, ormai certo di affogare se non trovo un appiglio, e…
Una sirena circondata da una folta massa di peli biondi tatuata su un avambraccio grosso quanto una gamba mi afferra e mi tira su con una facilità incredibile. Il vichingo mi fa segno di non preoccuparmi e di pensare alla barca. Mi rituffo, raggiungo Anahita e corro a prua per lanciare un’altra cima. Infine braccia amiche ci fanno accostare legando Anahita con sicurezza vicino alle sue sorelle. Un applauso con grida e fischi mi accoglie tra il gruppo di navigatori che mi hanno aiutato, mentre penso che c’è una solidarietà per mare che se ci fosse sulla terra il mondo sarebbe un posto migliore.
Sono a cena su una barca di francesi, insieme a un olandese, una coppia di svedesi e due tedeschi. Siamo tutti di nazionalità diverse, ma parliamo la stessa lingua. Quella del mare.
Sono solo, Emilio è partito…
Gibilterra: un pezzo di roccia a sud della penisola Iberica; un pezzo d’Inghilterra che sonnecchia adagiata su vecchie storie di mare; qui l’aria n’è permeata, tutto parla di imprese avventurose e di audaci capitani che sfidavano gli oceani. Ecco, La Rocca: un imponente promontorio che si allunga come un dito accusatore verso l’Africa. Provo la stessa sensazione degli antichi marinai che avevano paura di superare le Colonne d’Ercole, convinti che si precipitasse oltre la fine del mondo. Anahita riposa tranquillamente ormeggiata al pontile dello Sheppard’s Marina. Il momento è arrivato, l’ansia dimora nella mia mente già da un po’: sto per affrontare l’Atlantico da solo per la prima volta, e ho paura di precipitare oltre l’orizzonte.
Anahita mi guarda e sembra chiedermi verso quale avventura la stia portando. Già è un motivo d’orgoglio vederla qua, alle porte dell’Atlantico. Anahita, la maestosa, madre di Mitra, dea della fertilità e della maternità, colei che nutre, colei che protegge, colei che governa gli eventi atmosferici: l’equivalente latino di Immacolata…
E’ buio, chissà quanto tempo sono stato sul pontile a guardare la mia barca? E’ tempo di andare a letto, domani all’alba si parte.
C’è un’aria tranquilla, una leggera nebbia galleggia sull’acqua, e sembra che il mare la stia inalando. Ho deciso, calo sul pontile e porto le gambe a sgranchirsi per l’ultima volta, il Marina è deserto, solo qualche mattiniero come me che fa gli ultimi preparativi prima di partire. Sento il corpo attraversato da strani brividi, forse sono troppo teso, mi vedo come l’ultima foglia che cerca di restare aggrappata al ramo di un albero ormai spogliato completamente dall’inverno.
Mollo gli ormeggi, esco dal Marina lentamente e punto verso lo Stretto. Passo in mezzo a decine di grosse navi all’ancora nel golfo di Algeciras: giganti metallici che incombono su di me e Anahita facendoci sentire ancora più piccoli. Accendo la radio e ascolto il primo bollettino meteo del giorno: lo spagnolo è una lingua gradevole. Uno sciacquio sospetto mi distoglie, prendo la telecamera e vado a immortalare una coppia di delfini che giocano sull’onda creata a prua da Anahita. Alzo le vele, le metto a segno e dirigo verso l’avventura.
E’ il momento di far lavorare Mustafà: monto la pala a vento, tolgo il fermo, regolo la ghiera e lascio che lui trovi la giusta rotta.
Molti pensano che un navigatore solitario sia completamente solo, non è così: c’è la barca, che è la tua compagna di avventure, senza la quale non andresti da nessuna parte. Con la quale parli, non perché sei pazzo, ma perché la senti come un essere pensante, come una madre, una sorella, come una sposa. Lei ti sopporta e ti conduce in porti sicuri, chiedendoti solo di essere curata. Lei è il tuo guscio, il tuo bozzolo, la tua tranquillità.
Poi c’è Mustafà, che sta di guardia ventiquattro ore al giorno: non mangia, non beve, non parla, non dorme e conduce la barca con qualsiasi mare e in qualsiasi condizione, mentre tu sei al sicuro dentro il tuo guscio. Perché l’abbiano chiamato Mustafà, un timone a vento, non lo so, ma è sicuramente un compagno di viaggio indispensabile per un solitario. Come fai a sentirti solo? C’è molta gente che è più sola di me vivendo in mezzo ai propri simili.
Per colpa dei delfini, mi sono perso il bollettino meteo, il prossimo sarà tra sei ore. Questi sono errori che non si fanno.
Lo Stretto di Gibilterra sembra un’autostrada: barche, traghetti e superpetroliere che si incrociano continuamente in uno degli specchi d’acqua più trafficati del globo. Là, un branco di balene che a coppie si dirigono verso l’Atlantico, sono un po’ lontane, ma mi emoziono lo stesso. Queste sono scene che ti fanno pensare a un mare pieno di vita che viene costantemente inquinato dall’invadenza umana.
La radio stride ed emette il bollettino meteo: “… componente oeste fuerza cinco, marejada a fuerte marejada… ”. Ci sarà un po’ di mare e vento contrario, dovrò risalirlo, speriamo che non aumenti.
Meglio che mi preparo un panino. Stare dentro a cucinare può essere pericoloso con tutte le navi che incrociano in questa zona. Mustafà non si sta comportando bene, Anahita va a zig-zag, c’è qualcosa che mi sfugge, la pala oscilla troppo, forse se mettessi un qualcosa di elastico che facesse da freno alle forti oscillazioni… Ecco, un anello fatto con un pezzo di camera d’aria può essere utile, proviamo. Adesso sì, va meglio, Mustafà lavora bene e la scia di Anahita è dritta come una spada.
Non riesco a rilassarmi, vorrei leggere, ma apro il libro e vedo solo dei piccoli segni neri incomprensibili che mi danzano davanti agli occhi. Mi sento irrequieto, devo rilassarmi, ma come si fa?
E’ il momento di attraversare lo Stretto, la parte più pericolosa. Le grosse navi che incrociano – anche se hanno tutta una serie di strumentazioni sofisticate a bordo – non badano molto a un moscerino che galleggia. Tarifa è ormai alle mie spalle, comincio a sentire il respiro dell’Atlantico, ma ho la sensazione che stia respirando un po’ troppo forte, e la cosa non mi piace. E puntuale il meteo elenca la sua nemesi:“… componente oeste fuerza ocho, mar gruesa aumentando rapidamente a muy gruesa… ”. Rintocchi funerei rimbombano nella mia povera testa, finché un campanello d’allarme mi scuote facendomi destare da un torpore, seppur momentaneo, ma intenso. C’è una sola parola per riassumere il bollettino meteo. Burrasca!
Ecco, l’Atlantico mi sta dando il benvenuto. Sono esattamente a metà strada tra una costa e l’altra, e sono esattamente in un mare di guai: è il caso di dirlo.
Tra poco farà buio, ho appena superato Tangeri e mancano sette miglia per Cap Spartel, se lo doppio ho più possibilità di farla franca, posso virare e prendere il mare di poppa.
Il respiro dell’Atlantico aumenta fino a diventare un soffio forte, e dopo un po’ uno sbuffo teso. Anahita inizia a risentire dello sforzo, la vedo che soffre: batte sull’onda pesantemente. Il mare continua ad aumentare, il vento spinge le onde nello Stretto, che aumentano a dismisura. Anahita arranca sempre di più; per fortuna che Mustafà resiste. Vengo sballottato da una parte all’altra del pozzetto nonostante l’imbracatura di sicurezza.
Ormai è buio, le luci sono lontane, sono solo fuori alla porta, ma l’Atlantico me l’ha chiusa in faccia. Adesso non ci sono più soffi, non ci sono più sbuffi, ci sono solo raffiche. Ululati che ci investono, che ci martellano e ci spingono indietro. Un suono familiare mi distrae, un suono che riesco a sentire nonostante il vento. “Sono Emilio! Mi trovo a Marbella, qui è un inferno ci sono cinquanta nodi di vento, e da te?”. Non gli rispondo, sono troppo impaurito, stacco il telefonino e mi metto al timone. Viro e punto sul porto di Tangeri.
Ci avviciniamo alla costa e le onde sono più alte e più micidiali di prima, cominciano a essere molto più ravvicinate e frangono inesorabili. Sballottiamo in acque burrascose col vento che grida nelle sartie. Ho le braccia indolenzite dalla tensione che il timone mi costringe a imprimere a ogni ingavonata. Mancano due miglia all’entrata del porto, siamo sopraffatti da treni di onde che ci martellano con accanimento. Vedo gli scogli che si avvicinano minacciosi, cerco di virare a sinistra, ma Anahita è preda dei frangenti e non risponde. Grosse gocce di sudore mi scivolano lungo la schiena in una notte buia e fredda. Mi aggrappo al timone e dò tutta la barra a sinistra, sono al limite delle mie possibilità, non so più cosa fare: siamo schiavi dei flutti. Un’onda anomala ci ghermisce e ci spinge verso l’alto, trasformando Anahita in un otto volante, perdo la presa sul timone e cado nel pozzetto battendo la testa su una sporgenza, sprofondo in un’oscurità momentanea che mi avvinghia cercando di trattenermi, mentre Anahita batte con forza nell’incavo dell’onda successiva e si traversa. Si aprono le cateratte e ci sommergono totalmente. E’ finita!
Un silenzio improvviso e sconosciuto ci avvolge completamente, come se una mano divina avesse posto una teca sopra lo specchio d’acqua in cui ci troviamo. Un provvidenziale vuoto d’aria permette ad Anahita di riprendersi, e con uno scatto felino recupera l’equilibrio, rimettendosi miracolosamente in rotta. Raggiungo il timone e mi ci lego come Ulisse al canto delle sirene. Tremo, mentre lunghissimi minuti segnano la distanza che ci separa dalla salvezza.
Ecco! Il molo di sopravvento, ci siamo quasi! Viro a dritta con decisione e, come una magia, tutto si ferma. Resto qualche secondo stordito e completamente inerme: mi rimbombano ancora nella testa allarmanti residui di segnali di pericolo registrati dal mio cervello, insieme a immagini disastrose e agghiaccianti. Tiro un profondo sospiro di sollievo e mi volto in direzione dell’Atlantico. E in lontananza, appena sopra le grandi masse d’acqua vedo una sfera gialla che si affaccia dietro alle nuvole: è la Luna.
L’Atlantico una distesa d’acqua capricciosa come una donna, che ti ammalia con le sue lusinghe. Ti accarezza con il soffio dell’Aliseo e ti spinge leggero verso la meta, ma improvvisamente tira fuori gli artigli e diventa una fiera aggressiva e pericolosa, con sbuffi traditori e folate micidiali. Ti circonda con dolci colline d’acqua che degradano sotto la chiglia, ma senza preavviso le trasforma in montagne insormontabili e impervie, che si abbattono sullo scafo inesorabilmente, travolgendoti e trasformando il tuo sogno in un necrologio. Ma Anahita, la mia compagna di avventure, mi è stata fedele: non ha belle linee, ed è un po’ goffa, ma nonostante l’età avanzata mi ha condotto dall’altro lato dell’oceano, resistendo e sopportando continue sollecitazioni; reagendo con piglio deciso e lasciando sull’oceano una scia lunga tremila e seicento miglia. Cosa si può chiedere di più a una barca?
Dopo quattro lunghe settimane finalmente la meta: Mont Pelèe fa capolino dietro la foschia, sembra sorridere, un sorriso caraibico fatto di palme che svettano nel cielo azzurro, cosparso di fiocchi di nuvole cotonate; di lunghe spiagge bianche e assolate; di un mare turchese e cristallino abitato da pesci multicolori; del profumo di spezie sconosciute e misteriose; di Steel Band che suonano a ogni angolo di strada e da un’aria calda e accogliente che ti avvolge come in un sogno.
Ho affrontato questa traversata con l’intenzione di superare da solo l’oceano Atlantico e tra episodi piccoli e grandi mi sono aggiudicato il primo round – dopo un incontro duro e senza esclusione di colpi. Ma l’incontro non dura un solo round e sono ancora lontano dalla meta, ci arriverò in serata.
E’ buio, l’entrata è difficoltosa: un dedalo di secche e reef che sulle carte nautiche è definito “cul de sac”, non bisogna conoscere per forza il francese per capire il significato di queste parole: un budello cosparso di boe che segnalano il corridoio d’entrata del porto turistico di Le Marin. La prudenza mi consiglia di aspettare l’alba, l’azzardo mi incita a continuare; ascolto il secondo (sono stanco). Inizio a superare alcune secche seguendo attentamente le boe di segnalazione illuminate da un’intensa luce rossa: una, due, tre , quattro… dov’è la quinta? Quando realizzo l’errore è ormai troppo tardi. Uno stridìo sommerso mi fa accapponare la pelle, Anahita si blocca dando l’ultimo beccheggio in avanti e, arenandosi su un reef, resta immobile circondata da un oscuro silenzio. E’ una sensazione spiacevole, ho sentito la sofferenza della barca fin dentro le mie ossa. Il mare mi ha presentato il conto, calcolando un alto tasso di interessi. Ho abbassato la guardia e ho subìto un KO che mi ha steso al tappeto. Devo rialzarmi prima che finisca il conteggio! Provo a dare motore, prima avanti poi indietro, ma Anahita si appoggia su un lato soffrendo, e io con lei. Piango, mi inginocchio, mi dispero; sento tutto l’universo addosso. L’arbitro continua a contare… sette, otto… è finita! Aspetterò l’alba per chiedere soccorso; un sogno infranto proprio sul finale.
Mont Pelèe non mi sorride più, è avvolto nel buio, le palme, le spiagge bianche, le spezie, il mare turchese, sono scomparse dalla mia fantasia, mi resta solo il vento, caldo e costante… il vento? Che stupido, sono uno stupido! Come ho fatto a non pensarci prima? E’ una manovra rischiosa, ma possibile! Perché non tentare, tanto, male che vada, Anahita non si sposta più di tanto. Armo la randa e tiro su il fiocco e resto in attesa di un buon rinforzo di vento. Ecco! Ora! Cazzo le cime a ferro e Anahita si inclina, e, lentamente, comincia a spostarsi liberandosi dal giogo e portandosi verso acque più profonde. Un urlo liberatore si ripercuote nell’oscurità, sciogliendomi lo stress accumulato fino a pochi minuti prima. Mi sono rialzato prima che l’arbitro finisse di contare, e con un gancio ben piazzato ho abbattuto il mio avversario. Siamo pari!
Fatto l’ormeggio m’incammino sul pontile in cerca di qualcuno con cui parlare dopo tante settimane di silenzio, ma sono le tre di notte e in giro non c’è nessuno. Torno in barca, ma il sonno non arriva. Strano che dopo aver desiderato per giorni di farmi una bella dormita adesso non ci riesca.
Sono a Martinica, Anahita è ormeggiata, adesso riposa, e io veglio…
Eccomi qua, di nuovo sulla barca, a organizzare tutto l’organizzabile, a cercare, senza trovarlo, il punto debole che potrebbe trasformare l’avventura in una tragedia; passando le ultime ore a chiedermi se è una follia il ritorno in Atlantico da solo. È troppo forte la voglia d’avventura.
Sono pronto, la paura mi viene a trovare, le dico che non è invitata ma lei se ne infischia e diventa quasi un ospite fisso; la ignoro e mi dedico a studiare la rotta per il ritorno. Compro sette stecche di sigarette e alle 11:00 del 27 maggio parto da St. Marten — con la convinzione di aver lasciato la paura sul pontile — e faccio rotta verso le Azzorre. Duemilaquattrocento miglia da percorrere in circa ventidue giorni. La giornata è splendida l’aliseo mi accompagna con dolcezza, comincio a rilassarmi e mi accendo una sigaretta (sarà l’ultima, le altre le ho regalate agli amici).
All’improvviso il tempo comincia a cambiare: grosse nuvole si ammassano all’orizzonte, il vento aumenta e il mare s’ingrossa; riduco le vele e mi appresto a passare la prima notte insonne. Fulmini all’orizzonte, la nottata è lunga e non fa sperare in niente di buono. Provo a mangiare qualcosa, ma è impossibile; mi sento dentro una betoniera. Mi accuccio in un angolo e m’impongo di pensare a cosa fare, ma… niente, non posso fare niente, tutto quello che potevo fare l’ho già fatto. Resto in attesa, prima o poi dovrà finire.
Le notti insonni aumentano, dopo una settimana sono ancora in balìa del maltempo. Mangio quando posso, dormo come posso. I bollettini meteo sono scoraggianti: si prevedono peggioramenti. Alle Bermuda, seicento miglia dalla mia posizione, ci sono ripetuti avvisi di burrasca, mentre la perturbazione si sposta verso la mia rotta. Una barca a vela tedesca, con cinque persone a bordo, ha perso il timone e va alla deriva per l’oceano.
Toc! Toc! La paura bussa, sprango la porta, ho problemi più importanti. La barca rolla ininterrottamente, l’interno è tutto bagnato, fa freddo e sono intirizzito, cerco di coprirmi con più indumenti possibili. Le onde s’ingrossano e cominciano a frangere; qualcuna anche all’interno. La mente lavora, poi vola e si lascia trasportare dalle onde.
I minuti si susseguono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane…
L’alba del 22 giugno mi regala finalmente una giornata tersa e un mare amico. Oltre la foschia, la sagoma di Pico, una delle isole di un arcipelago sperduto in mezzo all’oceano Atlantico: le Azzorre. L’arrivo a Faial è previsto tra circa sette ore. Finalmente mi rilasso e comincio a godermi quelle rimanenti ore di navigazione tranquilla. Avvisto un gruppo di Delfini con il ventre rosa, dopo un po’ la coda di un Capodoglio che s’immerge… le Azzorre sono famose per il whale watching. Alle 14.00 arrivo a Faial, faccio l’ormeggio da solo e mi avvio verso l’ufficio della capitaneria con la sensazione di camminare sollevato da terra. Forse è il mal di terra? No, è la mia anima che vola, la tappa più dura è finita e io sono raggiante; tutto intorno a me risplende.
Il porto turistico è ben attrezzato, ottimo rifugio e meta di tutti i navigatori atlantici. Il punto di ritrovo è nel “fumoso” bar Café Sport di Peter, dove tra una birra e l’altra, in una babele di lingue, la gente si scambia esperienze e storie di mare. Il fascino di questo porto turistico si manifesta lungo tutta la scogliera frangiflutti, dove ogni equipaggio lascia il proprio disegno, perché, si racconta, se non lo fai la malasorte ti perseguiterà. I disegni sono una vera esplosione cromatica, c’è ne sono di bellissimi, di ogni forma e colore, creati da gente che viene da tutte le parti del mondo. Questa isola è in pratica la Mecca dei navigatori atlantici. Mi metto alla ricerca di colori e pennelli per assolvere al mio dovere di pittore. Il disegno fa schifo, ma va bene lo stesso. Stasera bistecca e patate fritte, le sogno da tempo.
Mi trastullo qualche giorno, poi mi dedico alla barca con perizia, mancano ancora milleduecento miglia, non bisogna abbassare la guardia. Decido di fare una tappa intermedia, da Faial a Sao Miguel di centocinquanta miglia, poiché il tempo non mi convince.
Giunto, finalmente, a Sao Miguel dopo un’ulteriore prova di forza, riorganizzo la barca giacché l’ultimo tratto mi ha “rimescolato gli interni” e resto in attesa alcuni giorni di un bollettino meteo favorevole. Dopodiché mi rimetto in navigazione per altre mille miglia verso la mia ultima tappa.
Ricomincia il ballo: pioggia, vento forte, onde alte; musica già ascoltata. Più vado avanti e più peggiora. Oltre al maltempo devo stare attento anche alle navi, che in questa zona incrociano a centinaia, e di tutte le dimensioni. Stringo i denti e subisco senza fiatare.
Anche in questo tratto l’oceano ha messo a dura prova sia me sia la barca. Il mare grosso e il vento forte, mi hanno fatto stare in pena, sulla mia rotta sono riuscito a evitare due brutte depressioni. Alla fine la depressione ha colpito anche me, ma non quell’atmosferica.
Dopo cinque giorni sono stremato, decido di puntare su Lagos in Portogallo, è più vicino. Ci arrivo di notte, e per la mia negligenza rischio pure di andare a scogli. Passata la paura, resto in zona in attesa che anche questa perturbazione passi. Mancano solo cento miglia per il Mediterraneo e finalmente il 7 luglio si chiude il cerchio, sono a Gibilterra.
Mentre sono disteso al sole mi viene in mente una scena della mia infanzia: ero piccolo e stavo al mare con i miei, mio padre m’incoraggiava a entrare in acqua per insegnarmi a nuotare, ma io ero spaventato e gli dicevo: «Papà non ci riesco, ho paura».
E mio padre: «Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle».