Tangeri

E’ buio, sagome scure dai contorni vaporosi avvolgono la signora della notte. Ogni tanto s’illuminano squarciando il buio con saette accecanti, poi un successivo basso brontolio mi avverte che la natura sta ancora sfogando la sua collera.

Ci troviamo all’imboccatura del porto di Tangeri, alle estreme propaggini del continente Africano, siamo appena usciti indenni da un’infida burrasca. Il vento picchia ancora forte ruggendo sull’attrezzatura di Anahita, che nonostante sia priva di vele, rolla con preoccupanti inclinazioni, almeno adesso siamo al riparo dalle onde. Mi sono accorto di non avere la mappa particolareggiata del porto, il che significa che è come trovarsi in un labirinto, al buio, dove non si riescono a definire neanche le pareti. Procediamo attenti, ma con difficoltà, il motore ringhia per l’alto numero di giri che sono costretto a dargli per tenere Anahita in rotta. Mi guardo intorno cercando di capire dove dirigermi, ma una moltitudine di luci riflesse sull’acqua mi confondono senza darmi la possibilità di individuare un bacino adatto alle barche da diporto. Vedo solo navi che sembrano enormi palazzoni illuminati a giorno che galleggiano sull’acqua smossa dal vento forte, nonostante l’apparente densità oleosa e la puzza che mi offende le narici. Sembra strano, ma sto pensando seriamente di virare e ributtarmi nella burrasca, credo però che Anahita ne uscirebbe danneggiata.

Là, una luce verde all’inizio di un braccio che si allunga fino a toccare quasi la banchina delle navi porta container. Veloce dirigo da quella parte, ma non si vede niente, solo le solite luci che si confondono in contorni di qualsiasi forma. Agguanto il binocolo con una mano, mentre con l’altra cerco di tenere il timone dritto per non andare a sbattere contro la banchina. Il terrore mi attraversa tutto il corpo, e sembra che continui la corsa trasmettendosi anche ad Anahita, che vibra tutta.

Un’entrata secondaria sembra indicarmi la possibilità di un’ulteriore insenatura, ci infiliamo all’interno con la speranza di aver imboccato il bacino giusto. Sono stanco, la burrasca mi ha messo in ginocchio, Anahita se l’è cavata bene: si è scrollata da dosso quei perfidi flutti che cercavano di trattenerci tra le loro grinfie. Siamo stati ghermiti dall’oceano e poi ributtati indietro come un pezzo di polistirolo; ora siamo molto provati. E’ stato un battesimo di fuoco, anzi per essere precisi una cresima, e lo schiaffo non è stato per niente leggero.

Anahita avanza rapida, mentre la paura mi assale: sono in un porto sconosciuto, al buio, sotto raffiche di cinquanta nodi, perso in un labirinto di darsene e col motore a pieni giri per contrastare il vento. Al primo errore siamo a scogli!

Non ce la faccio più, sono a pezzi, ho le braccia indolenzite dallo sforzo, mentre le gambe non riescono più a sopportare il peso del corpo. Sono infreddolito e tremante e col morale sotto il livello del mare.

Finalmente intravedo alcuni alberi di barche a vela, ma non riesco a capire da dove passare. Vado avanti e dopo un po’ individuo un altro braccio che si apre a sinistra – pieno, per la maggior parte, di pescherecci d’alto mare: neanche loro sono usciti questa notte. Procedo in quella direzione e in fondo intravedo, sotto una luce gialla, degli spettri che si sbracciano. Un lampo di trionfo m’ illumina il viso e punto, senza esitare, verso di loro. Alcuni uomini mi fanno cenno di accostare vicino ad altre barche a vela messe l’una a fianco all’altra, mi avvicino facendo ruggire il motore per contrastare la forza del vento – che non ne vuol sapere di mollare. Una decina di persone saltellano sopra le barche fino a raggiungere la più esterna. Lancio la cima di poppa e riprendo il timone manovrando per contrastare l’abbrivio di Anahita, e STUMP! In rumore atroce mi penetra fin dentro il DNA, mentre il motore si ferma. Capisco immediatamente l’origine della tragedia: la cima si è attorcigliata intorno all’elica. Mi volto e vedo due marocchini che litigano in un misto di arabo e francese accusandosi a vicenda. Le imprecazioni inviate da me all’indirizzo dei due sono simili a una raffica di mitra inarrestabile. Intanto Anahita inizia ad allontanarsi spinta dal vento, e io vado in panico.

Eccomi qua, di nuovo nei guai, devo agire immediatamente prima che andiamo a sbattere chissà dove. Prendo una lunga cima, ne do volta un’estremità, e mi tuffo nelle acque buie e puzzolenti del porto. Metto la cima tra i denti e con lunghe bracciate raggiungo le barche ormeggiate, ma perdo la presa e vado sotto annaspando nell’acqua lercia, mi dibatto cercando di risalire e guadagnare aria, ma la cerata mi fa da zavorra e mi tiene sotto contro la mia volontà. Tolgo velocemente la giacca e allungo un braccio verso l’alto disperatamente, mentre con l’altro nuoto, ormai certo di affogare se non trovo un appiglio, e…

Una sirena circondata da una folta massa di peli biondi tatuata su un avambraccio grosso quanto una gamba mi afferra e mi tira su con una facilità incredibile. Il vichingo mi fa segno di non preoccuparmi e di pensare alla barca. Mi rituffo, raggiungo Anahita e corro a prua per lanciare un’altra cima. Infine braccia amiche ci fanno accostare legando Anahita con sicurezza vicino alle sue sorelle. Un applauso con grida e fischi mi accoglie tra il gruppo di navigatori che mi hanno aiutato, mentre penso che c’è una solidarietà per mare che se ci fosse sulla terra il mondo sarebbe un posto migliore.

Sono a cena su una barca di francesi, insieme a un olandese, una coppia di svedesi e due tedeschi. Siamo tutti di nazionalità diverse, ma parliamo la stessa lingua. Quella del mare.

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Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle

Eccomi qua, di nuovo sulla barca, a organizzare tutto l’organizzabile, a cercare, senza trovarlo, il punto debole che potrebbe trasformare l’avventura in una tragedia; passando le ultime ore a chiedermi se è una follia il ritorno in Atlantico da solo. È troppo forte la voglia d’avventura.

Sono pronto, la paura mi viene a trovare, le dico che non è invitata ma lei se ne infischia e diventa quasi un ospite fisso; la ignoro e mi dedico a studiare la rotta per il ritorno. Compro sette stecche di sigarette e alle 11:00 del 27 maggio parto da St. Marten — con la convinzione di aver lasciato la paura sul pontile — e faccio rotta verso le Azzorre. Duemilaquattrocento miglia da percorrere in circa ventidue giorni. La giornata è splendida l’aliseo mi accompagna con dolcezza, comincio a rilassarmi e mi accendo una sigaretta (sarà l’ultima, le altre le ho regalate agli amici).

All’improvviso il tempo comincia a cambiare: grosse nuvole si ammassano all’orizzonte, il vento aumenta e il mare s’ingrossa; riduco le vele e mi appresto a passare la prima notte insonne. Fulmini all’orizzonte, la nottata è lunga e non fa sperare in niente di buono. Provo a mangiare qualcosa, ma è impossibile; mi sento dentro una betoniera. Mi accuccio in un angolo e m’impongo di pensare a cosa fare, ma… niente, non posso fare niente, tutto quello che potevo fare l’ho già fatto. Resto in attesa, prima o poi dovrà finire.

Le notti insonni aumentano, dopo una settimana sono ancora in balìa del maltempo. Mangio quando posso, dormo come posso. I bollettini meteo sono scoraggianti: si prevedono peggioramenti. Alle Bermuda, seicento miglia dalla mia posizione, ci sono ripetuti avvisi di burrasca, mentre la perturbazione si sposta verso la mia rotta. Una barca a vela tedesca, con cinque persone a bordo, ha perso il timone e va alla deriva per l’oceano.

Toc! Toc! La paura bussa, sprango la porta, ho problemi più importanti. La barca rolla ininterrottamente, l’interno è tutto bagnato, fa freddo e sono intirizzito, cerco di coprirmi con più indumenti possibili. Le onde s’ingrossano e cominciano a frangere; qualcuna anche all’interno. La mente lavora, poi vola e si lascia trasportare dalle onde.

I minuti si susseguono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane…

L’alba del 22 giugno mi regala finalmente una giornata tersa e un mare amico. Oltre la foschia, la sagoma di Pico, una delle isole di un arcipelago sperduto in mezzo all’oceano Atlantico: le Azzorre. L’arrivo a Faial è previsto tra circa sette ore. Finalmente mi rilasso e comincio a godermi quelle rimanenti ore di navigazione tranquilla. Avvisto un gruppo di Delfini con il ventre rosa, dopo un po’ la coda di un Capodoglio che s’immerge… le Azzorre sono famose per il whale watching. Alle 14.00 arrivo a Faial, faccio l’ormeggio da solo e mi avvio verso l’ufficio della capitaneria con la sensazione di camminare sollevato da terra. Forse è il mal di terra? No, è la mia anima che vola, la tappa più dura è finita e io sono raggiante; tutto intorno a me risplende.

Il porto turistico è ben attrezzato, ottimo rifugio e meta di tutti i navigatori atlantici. Il punto di ritrovo è nel “fumoso” bar Café Sport di Peter, dove tra una birra e l’altra, in una babele di lingue, la gente si scambia esperienze e storie di mare. Il fascino di questo porto turistico si manifesta lungo tutta la scogliera frangiflutti, dove ogni equipaggio lascia il proprio disegno, perché, si racconta, se non lo fai la malasorte ti perseguiterà. I disegni sono una vera esplosione cromatica, c’è ne sono di bellissimi, di ogni forma e colore, creati da gente che viene da tutte le parti del mondo. Questa isola è in pratica la Mecca dei navigatori atlantici. Mi metto alla ricerca di colori e pennelli per assolvere al mio dovere di pittore. Il disegno fa schifo, ma va bene lo stesso. Stasera bistecca e patate fritte, le sogno da tempo.

Mi trastullo qualche giorno, poi mi dedico alla barca con perizia, mancano ancora milleduecento miglia, non bisogna abbassare la guardia. Decido di fare una tappa intermedia, da Faial a Sao Miguel di centocinquanta miglia, poiché il tempo non mi convince.

Giunto, finalmente, a Sao Miguel dopo un’ulteriore prova di forza, riorganizzo la barca giacché l’ultimo tratto mi ha “rimescolato gli interni” e resto in attesa alcuni giorni di un bollettino meteo favorevole. Dopodiché mi rimetto in navigazione per altre mille miglia verso la mia ultima tappa.

Ricomincia il ballo: pioggia, vento forte, onde alte; musica già ascoltata. Più vado avanti e più peggiora. Oltre al maltempo devo stare attento anche alle navi, che in questa zona incrociano a centinaia, e di tutte le dimensioni. Stringo i denti e subisco senza fiatare.

Anche in questo tratto l’oceano ha messo a dura prova sia me sia la barca. Il mare grosso e il vento forte, mi hanno fatto stare in pena, sulla mia rotta sono riuscito a evitare due brutte depressioni. Alla fine la depressione ha colpito anche me, ma non quell’atmosferica.

Dopo cinque giorni sono stremato, decido di puntare su Lagos in Portogallo, è più vicino. Ci arrivo di notte, e per la mia negligenza rischio pure di andare a scogli. Passata la paura, resto in zona in attesa che anche questa perturbazione passi. Mancano solo cento miglia per il Mediterraneo e finalmente il 7 luglio si chiude il cerchio, sono a Gibilterra.

Mentre sono disteso al sole mi viene in mente una scena della mia infanzia: ero piccolo e stavo al mare con i miei, mio padre m’incoraggiava a entrare in acqua per insegnarmi a nuotare, ma io ero spaventato e gli dicevo: «Papà non ci riesco, ho paura».

E mio padre: «Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle».

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