Il buio si stava allontanando, sbadigliando dietro l’orizzonte, cominciai a intravedere la sagoma lattiginosa di un’alta propaggine. La radio iniziò a gracchiare suoni incomprensibili, poi una voce metallica diramò il bollettino nella lingua dei marinai: “… vento da nord est con rinforzi fino a trenta nodi, mare da mosso a molto mosso… ” Ammainai la randa, ridussi il fiocco e continuai verso l’imponderabile.
Poco dopo le prime sventagliate d’aria iniziarono a colpire Anahita facendola rollare pesantemente: mi trovavo nel canale che univa Gran Canaria e Tenerife, i cui rilievi creavano un canyon sul mare alto oltre tremila metri. Il vento, incuneandosi tra quelle elevate pareti vulcaniche, accelerava fino a raddoppiare quasi la velocità. Anahita cavalcava l’onda con fatica sotto le raffiche incessanti, e io pregavo di superare al più presto quel passaggio infernale. Ma uno schianto feroce fece tremare Anahita in tutta la sua struttura, facendole perdere la stabilità – mentre cominciava a ruotare su se stessa. Guardai verso prua e mi resi conto del disastro subìto dalla mia compagna di viaggio: lo strallo di prua si era completamente sradicato dalla coperta, strappando quel poco di vela che la teneva in asse. Ormai eravamo preda dei marosi. Legai la cintura di sicurezza e corsi a prua armato di coltello per liberare l’albero da quel groviglio di tela e cime. Ma la violenza del mare non ci dava tregua: le onde si susseguivano incalzanti, in un mare turbolento e insidioso, abbattendosi su di noi senza pietà. Lottai in un equilibrio instabile contro quella forza della natura che mi faceva cadere sul ponte ad ogni ingavonata; mentre la sorte mi stava preparato un brutto scherzo: il coltello – come se avesse posseduto una volontà propria – tagliando l’ultima cima, continuò la sua corsa verso il basso e mi accorsi, in un misto di stupore e spavento, che mi ero procurato una ferita lunga e profonda sulla coscia sinistra, a poca distanza dall’arteria femorale. Paura mista a rabbia attraversarono il mio corpo con un tremito irrefrenabile, seguito da alcuni attimi in cui neanche il frastuono della burrasca si sentiva in quella quieta perdita di contatto con la realtà. Uscii da quel breve limbo e misi in sicurezza l’attrezzatura e, dopo aver annaffiato il ponte con il mio sangue, legai una cima sopra la ferita per fermare quel sacro fluido che trattiene la vita. Ero a trenta miglia dalla costa con mare in burrasca, grosse onde ci investivano senza sosta, martellandoci continuamente. Folate raccapriccianti ululavano tra le sartie prive di vela, Anahita tremava mentre io ero sul punto di perdere coscienza. I minuti passavano lenti, ci mettevano secoli per formare un’ora, guardavo l’orologio con la netta sensazione che retrocedesse. Il mare ormai era diventato bianco, un bianco terrificante, mentre Anahita suonava clangori funerei sotto le raffiche insistenti.
E dopo molti secoli giunsi in vista del porto di Los Cristianos, allertai la Capitaneria descrivendogli le mie condizioni fisiche – se avessero saputo anche di quelle mentali oltre all’ambulanza avrebbero mandato anche una camicia di forza: ero furioso e incattivito dalla tensione e condannavo la mia stupidità. Sono convinto che il terzo principio della Dinamica che afferma: “A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria” si possa applicare al mare, con una piccola variazione: “A ogni azione corrisponde una reazione doppia e contraria” . Il mare ti castiga con gli interessi a ogni superficialità commessa.
All’imboccatura del porto vidi un capannello di gente incuriosita vicino all’ambulanza, ma a questo punto necessita una descrizione minuziosa delle mie sembianze: avevo una cerata gialla tagliata e macchiata di sangue, il contrasto tra i due colori era impressionante. La barba incolta, le occhiaie e il viso sporco di sangue rappreso non contribuivano per niente a darmi un aspetto gradevole. Inoltre la cima intorno alla coscia mi faceva deambulare con difficoltà. Il tutto mi dava un aspetto strano: sembravo uno zombie indemoniato.
Un infermiere comparve tra la folla che si aprì come le acque del mar rosso, e facendomi adagiare sulla barella mi chiese: «Quiere beber?». «Sì, una cerveza!», risposi. Era l’unica cosa che desideravo in quel momento.
Dopo un numero imprecisato di punti di sutura e un numero imprecisato di ore al pronto soccorso, tornai in barca come un cane bastonato. Quella notte non chiusi occhio; c’era un solo pensiero che mi ronzava in testa: che, per via dell’incidente, avrei dovuto rinunciare a fare la traversata dell’Atlantico. Ero molto abbattuto. Le telefonate degli amici non mi aiutavano certamente a risollevarmi: tutti mi consigliavano di abbandonare l’impresa.
Il giorno dopo mia moglie era a Tenerife, mi guardò negli occhi e, sapendo cosa mi passasse per la testa, mi disse: «Vai, continua, realizza il tuo sogno perché sono sicura che ci riuscirai.»
La barca ora è a Martinica nelle Antille Francesi, ma questa è un’altra storia.