La coccinella

Le gambe distese ad asciugare

il mare è più blu che verde

pensieri rincorsi da paure

ti guardo, sei incerta

affido tutto a te

cammini esitando

ti ostacolo col dito

se lo superi ci riuscirò, mi dico.

L’hai superato

posso superare l’oceano.

Share This:

Sono solo.

Sono solo, Emilio è partito…

Gibilterra: un pezzo di roccia a sud della penisola Iberica; un pezzo d’Inghilterra che sonnecchia adagiata su vecchie storie di mare; qui l’aria n’è permeata, tutto parla di imprese avventurose e di audaci capitani che sfidavano gli oceani. Ecco, La Rocca: un imponente promontorio che si allunga come un dito accusatore verso l’Africa. Provo la stessa sensazione degli antichi marinai che avevano paura di superare le Colonne d’Ercole, convinti che si precipitasse oltre la fine del mondo. Anahita riposa tranquillamente ormeggiata al pontile dello Sheppard’s Marina. Il momento è arrivato, l’ansia dimora nella mia mente già da un po’: sto per affrontare l’Atlantico da solo per la prima volta, e ho paura di precipitare oltre l’orizzonte.

Anahita mi guarda e sembra chiedermi verso quale avventura la stia portando. Già è un motivo d’orgoglio vederla qua, alle porte dell’Atlantico. Anahita, la maestosa, madre di Mitra, dea della fertilità e della maternità, colei che nutre, colei che protegge, colei che governa gli eventi atmosferici: l’equivalente latino di Immacolata…

E’ buio, chissà quanto tempo sono stato sul pontile a guardare la mia barca? E’ tempo di andare a letto, domani all’alba si parte.

C’è un’aria tranquilla, una leggera nebbia galleggia sull’acqua, e sembra che il mare la stia inalando. Ho deciso, calo sul pontile e porto le gambe a sgranchirsi per l’ultima volta, il Marina è deserto, solo qualche mattiniero come me che fa gli ultimi preparativi prima di partire. Sento il corpo attraversato da strani brividi, forse sono troppo teso, mi vedo come l’ultima foglia che cerca di restare aggrappata al ramo di un albero ormai spogliato completamente dall’inverno.

Mollo gli ormeggi, esco dal Marina lentamente e punto verso lo Stretto. Passo in mezzo a decine di grosse navi all’ancora nel golfo di Algeciras: giganti metallici che incombono su di me e Anahita facendoci sentire ancora più piccoli. Accendo la radio e ascolto il primo bollettino meteo del giorno: lo spagnolo è una lingua gradevole. Uno sciacquio sospetto mi distoglie, prendo la telecamera e vado a immortalare una coppia di delfini che giocano sull’onda creata a prua da Anahita. Alzo le vele, le metto a segno e dirigo verso l’avventura.

E’ il momento di far lavorare Mustafà: monto la pala a vento, tolgo il fermo, regolo la ghiera e lascio che lui trovi la giusta rotta.

Molti pensano che un navigatore solitario sia completamente solo, non è così: c’è la barca, che è la tua compagna di avventure, senza la quale non andresti da nessuna parte. Con la quale parli, non perché sei pazzo, ma perché la senti come un essere pensante, come una madre, una sorella, come una sposa. Lei ti sopporta e ti conduce in porti sicuri, chiedendoti solo di essere curata. Lei è il tuo guscio, il tuo bozzolo, la tua tranquillità.

Poi c’è Mustafà, che sta di guardia ventiquattro ore al giorno: non mangia, non beve, non parla, non dorme e conduce la barca con qualsiasi mare e in qualsiasi condizione, mentre tu sei al sicuro dentro il tuo guscio. Perché l’abbiano chiamato Mustafà, un timone a vento, non lo so, ma è sicuramente un compagno di viaggio indispensabile per un solitario. Come fai a sentirti solo? C’è molta gente che è più sola di me vivendo in mezzo ai propri simili.

Per colpa dei delfini, mi sono perso il bollettino meteo, il prossimo sarà tra sei ore. Questi sono errori che non si fanno.

Lo Stretto di Gibilterra sembra un’autostrada: barche, traghetti e superpetroliere che si incrociano continuamente in uno degli specchi d’acqua più trafficati del globo. Là, un branco di balene che a coppie si dirigono verso l’Atlantico, sono un po’ lontane, ma mi emoziono lo stesso. Queste sono scene che ti fanno pensare a un mare pieno di vita che viene costantemente inquinato dall’invadenza umana.

La radio stride ed emette il bollettino meteo: “… componente oeste fuerza cinco, marejada a fuerte marejada… ”. Ci sarà un po’ di mare e vento contrario, dovrò risalirlo, speriamo che non aumenti.

Meglio che mi preparo un panino. Stare dentro a cucinare può essere pericoloso con tutte le navi che incrociano in questa zona. Mustafà non si sta comportando bene, Anahita va a zig-zag, c’è qualcosa che mi sfugge, la pala oscilla troppo, forse se mettessi un qualcosa di elastico che facesse da freno alle forti oscillazioni… Ecco, un anello fatto con un pezzo di camera d’aria può essere utile, proviamo. Adesso sì, va meglio, Mustafà lavora bene e la scia di Anahita è dritta come una spada.

Non riesco a rilassarmi, vorrei leggere, ma apro il libro e vedo solo dei piccoli segni neri incomprensibili che mi danzano davanti agli occhi. Mi sento irrequieto, devo rilassarmi, ma come si fa?

E’ il momento di attraversare lo Stretto, la parte più pericolosa. Le grosse navi che incrociano – anche se hanno tutta una serie di strumentazioni sofisticate a bordo – non badano molto a un moscerino che galleggia. Tarifa è ormai alle mie spalle, comincio a sentire il respiro dell’Atlantico, ma ho la sensazione che stia respirando un po’ troppo forte, e la cosa non mi piace. E puntuale il meteo elenca la sua nemesi:“… componente oeste fuerza ocho, mar gruesa aumentando rapidamente a muy gruesa… ”. Rintocchi funerei rimbombano nella mia povera testa, finché un campanello d’allarme mi scuote facendomi destare da un torpore, seppur momentaneo, ma intenso. C’è una sola parola per riassumere il bollettino meteo. Burrasca!

Ecco, l’Atlantico mi sta dando il benvenuto. Sono esattamente a metà strada tra una costa e l’altra, e sono esattamente in un mare di guai: è il caso di dirlo.

Tra poco farà buio, ho appena superato Tangeri e mancano sette miglia per Cap Spartel, se lo doppio ho più possibilità di farla franca, posso virare e prendere il mare di poppa.

Il respiro dell’Atlantico aumenta fino a diventare un soffio forte, e dopo un po’ uno sbuffo teso. Anahita inizia a risentire dello sforzo, la vedo che soffre: batte sull’onda pesantemente. Il mare continua ad aumentare, il vento spinge le onde nello Stretto, che aumentano a dismisura. Anahita arranca sempre di più; per fortuna che Mustafà resiste. Vengo sballottato da una parte all’altra del pozzetto nonostante l’imbracatura di sicurezza.

Ormai è buio, le luci sono lontane, sono solo fuori alla porta, ma l’Atlantico me l’ha chiusa in faccia. Adesso non ci sono più soffi, non ci sono più sbuffi, ci sono solo raffiche. Ululati che ci investono, che ci martellano e ci spingono indietro. Un suono familiare mi distrae, un suono che riesco a sentire nonostante il vento. “Sono Emilio! Mi trovo a Marbella, qui è un inferno ci sono cinquanta nodi di vento, e da te?”. Non gli rispondo, sono troppo impaurito, stacco il telefonino e mi metto al timone. Viro e punto sul porto di Tangeri.

Ci avviciniamo alla costa e le onde sono più alte e più micidiali di prima, cominciano a essere molto più ravvicinate e frangono inesorabili. Sballottiamo in acque burrascose col vento che grida nelle sartie. Ho le braccia indolenzite dalla tensione che il timone mi costringe a imprimere a ogni ingavonata. Mancano due miglia all’entrata del porto, siamo sopraffatti da treni di onde che ci martellano con accanimento. Vedo gli scogli che si avvicinano minacciosi, cerco di virare a sinistra, ma Anahita è preda dei frangenti e non risponde. Grosse gocce di sudore mi scivolano lungo la schiena in una notte buia e fredda. Mi aggrappo al timone e dò tutta la barra a sinistra, sono al limite delle mie possibilità, non so più cosa fare: siamo schiavi dei flutti. Un’onda anomala ci ghermisce e ci spinge verso l’alto, trasformando Anahita in un otto volante, perdo la presa sul timone e cado nel pozzetto battendo la testa su una sporgenza, sprofondo in un’oscurità momentanea che mi avvinghia cercando di trattenermi, mentre Anahita batte con forza nell’incavo dell’onda successiva e si traversa. Si aprono le cateratte e ci sommergono totalmente. E’ finita!

Un silenzio improvviso e sconosciuto ci avvolge completamente, come se una mano divina avesse posto una teca sopra lo specchio d’acqua in cui ci troviamo. Un provvidenziale vuoto d’aria permette ad Anahita di riprendersi, e con uno scatto felino recupera l’equilibrio, rimettendosi miracolosamente in rotta. Raggiungo il timone e mi ci lego come Ulisse al canto delle sirene. Tremo, mentre lunghissimi minuti segnano la distanza che ci separa dalla salvezza.

Ecco! Il molo di sopravvento, ci siamo quasi! Viro a dritta con decisione e, come una magia, tutto si ferma. Resto qualche secondo stordito e completamente inerme: mi rimbombano ancora nella testa allarmanti residui di segnali di pericolo registrati dal mio cervello, insieme a immagini disastrose e agghiaccianti. Tiro un profondo sospiro di sollievo e mi volto in direzione dell’Atlantico. E in lontananza, appena sopra le grandi masse d’acqua vedo una sfera gialla che si affaccia dietro alle nuvole: è la Luna.

Share This:

Gli ho dato un taglio.

Il buio si stava allontanando, sbadigliando dietro l’orizzonte, cominciai a intravedere la sagoma lattiginosa di un’alta propaggine. La radio iniziò a gracchiare suoni incomprensibili, poi una voce metallica diramò il bollettino nella lingua dei marinai: “… vento da nord est con rinforzi  fino a trenta nodi, mare da mosso a molto mosso… ”  Ammainai la randa, ridussi il fiocco e continuai verso l’imponderabile.

Poco dopo le prime sventagliate d’aria iniziarono a colpire Anahita facendola rollare pesantemente: mi trovavo nel canale che univa Gran Canaria e Tenerife, i cui  rilievi creavano un canyon sul mare alto oltre tremila metri. Il vento, incuneandosi tra quelle  elevate pareti vulcaniche, accelerava fino a raddoppiare quasi la velocità. Anahita cavalcava l’onda con fatica sotto le raffiche incessanti, e io pregavo di superare al più presto quel passaggio infernale. Ma uno schianto feroce fece tremare Anahita in tutta la sua struttura, facendole perdere la stabilità – mentre cominciava a ruotare su se stessa. Guardai verso prua e mi resi conto del disastro subìto dalla mia compagna di viaggio: lo strallo di prua si era completamente sradicato dalla coperta, strappando quel poco di vela che la teneva in asse. Ormai eravamo preda dei marosi. Legai la cintura di sicurezza e corsi a prua armato di coltello per liberare l’albero da quel groviglio di tela e cime. Ma la violenza del mare non ci dava tregua: le onde si susseguivano incalzanti, in un mare turbolento e insidioso, abbattendosi su di noi senza pietà. Lottai in un equilibrio instabile contro quella forza della natura che mi faceva cadere sul ponte ad ogni ingavonata; mentre la sorte mi stava preparato un brutto scherzo: il coltello – come se avesse posseduto una volontà propria – tagliando l’ultima cima, continuò la sua corsa verso il basso e mi accorsi, in un misto di stupore e spavento, che mi ero procurato una ferita lunga e profonda sulla coscia sinistra, a poca distanza dall’arteria femorale. Paura mista a rabbia attraversarono il mio corpo con un tremito irrefrenabile, seguito da alcuni attimi in cui neanche il frastuono della burrasca si sentiva in quella quieta perdita di contatto con la realtà. Uscii da quel breve limbo e misi in sicurezza l’attrezzatura e, dopo aver annaffiato il ponte con il mio sangue, legai una cima sopra la ferita per fermare quel sacro fluido che  trattiene la vita. Ero a trenta miglia dalla costa con mare in burrasca, grosse onde ci investivano senza sosta, martellandoci continuamente. Folate raccapriccianti ululavano tra le sartie prive di vela, Anahita tremava mentre io ero sul punto di perdere coscienza. I minuti passavano lenti, ci mettevano secoli per formare un’ora, guardavo l’orologio con la netta sensazione che retrocedesse. Il mare ormai era diventato bianco, un bianco terrificante, mentre Anahita suonava clangori funerei sotto le raffiche insistenti.

E dopo molti secoli giunsi in vista del porto di Los Cristianos, allertai la Capitaneria descrivendogli le mie condizioni fisiche – se avessero saputo anche di quelle mentali oltre all’ambulanza avrebbero mandato anche una camicia di forza: ero furioso e incattivito dalla tensione e condannavo la mia stupidità. Sono convinto che il terzo principio della Dinamica che afferma: “A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”  si possa applicare al mare, con una piccola variazione: “A ogni azione corrisponde una reazione doppia e contraria” . Il mare ti castiga con gli interessi a ogni superficialità commessa.

All’imboccatura del porto vidi un capannello di gente incuriosita vicino all’ambulanza, ma a questo punto necessita una descrizione minuziosa delle mie sembianze: avevo una cerata gialla tagliata e macchiata di sangue, il contrasto tra i due colori era impressionante. La barba incolta, le occhiaie e il viso sporco di sangue rappreso non contribuivano per niente a darmi un aspetto gradevole. Inoltre la cima intorno alla coscia mi faceva deambulare con difficoltà. Il tutto mi dava un aspetto strano: sembravo uno zombie indemoniato.

Un infermiere comparve tra la folla che si aprì come le acque del mar rosso, e facendomi adagiare sulla barella mi chiese: «Quiere beber?». «Sì, una cerveza!», risposi. Era l’unica cosa che desideravo in quel momento.

Dopo un numero imprecisato di punti di sutura e un numero imprecisato di ore al pronto soccorso, tornai in barca come un cane bastonato. Quella notte non chiusi occhio; c’era un solo pensiero che mi ronzava in testa: che, per via dell’incidente, avrei dovuto rinunciare a fare la traversata dell’Atlantico. Ero molto abbattuto. Le telefonate degli amici non mi aiutavano certamente a risollevarmi: tutti mi consigliavano di abbandonare l’impresa.

Il giorno dopo mia moglie era a Tenerife, mi  guardò negli occhi e, sapendo cosa mi passasse per la testa, mi disse: «Vai, continua, realizza il tuo sogno perché sono sicura che ci riuscirai.»

La barca ora è a Martinica nelle Antille Francesi, ma questa è un’altra storia.

Share This: