Chiamo dal mare…

Ciao amore come stai?

Da dove chiami?

Chiamo dal mare.

Il mare, che bello…

Dimmi amore, dimmi, come stai?

Il mare… ho tante cose da fare.

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Leggera

Sopra quel fazzoletto di sabbia tossisci in ginocchio, 

hai bevuto troppo mare: sei ubriaca. 

Pensavi di poter superare le onde con un salto. 

Sei troppo leggera, troppo leggera. 

Forse dovevi aspettare che diventassi più pesante.

 

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Rivolo

Un rivolo corre

cerchi leggeri vorticano in superficie

istantanee galleggiano

le acque le assorbono

poi i volti diventano solubili

le sembianze si dissolvono

e la mia vita scivola veloce verso il mare.

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La coccinella

Le gambe distese ad asciugare

il mare è più blu che verde

pensieri rincorsi da paure

ti guardo, sei incerta

affido tutto a te

cammini esitando

ti ostacolo col dito

se lo superi ci riuscirò, mi dico.

L’hai superato

posso superare l’oceano.

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Geisha

Sembri pietosamente abbandonata: due parabordi di differente colore cadono dalle draglie, fin quasi a toccare la superficie dell’acqua. Quella barba di alghe formatasi intorno alla linea di galleggiamento sembra che stia lì solo e unicamente per produrre cibo per i pesci che ci girano intorno. La coperta è messa male e avrebbe bisogno di una bella scrostata e di una lucidata. Lo scafo è segnato da varie linee fatte da manovre disattente, impresse su un fondo arancione consumato dal sole. Il pozzetto sembra un mercatino dell’usato, con cime abbandonate qua e là; un salvagente buttato in un angolo, un asciugamano che fa da cuscino e macchie di muffa disseminate un po’ dovunque. Bisognerebbe sentire il motore e verificare la chiglia; per le vele non mi preoccupo, sicuramente saranno in condizioni pessime. L’albero sembra a posto, anche se tenuto su da sartie che andrebbero cambiate. Il cartello vendesi prende quasi tutto l’oblò di prua: anche quello è usato; starà lì da tempo. Non superi gli otto metri e mezzo secondo me, le murate sono alte, il pozzetto è ben protetto, sembri solida; hai solo bisogno di cure amorevoli.

Compongo il numero; ho deciso, ti chiamerò Geisha.

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Scandaglio

Le tenebre si allontanano portando con sé gli spettri della notte, ma la luce fatica a prendere completamente possesso del cielo, grazie a questa bruma fitta che avvolge il mondo in una grigia calma ovattata. Il silenzio è rotto solo dal leggero scricchiolio del fasciame. Le vele continuano a sembrare fantasmi addormentati in attesa di un alito di vita che tarda ad arrivare. Sento la fragranza della terra bagnata oltre i vapori umidi, ma la lente del cannocchiale mi mostra solo un muro di nebbia. La notte è stata lunga e insonne per tutti. L’unica possibilità di avanzare, in mancanza di vento, è stata quella di mettere le scialuppe a mare e far spaccare la schiena agli uomini facendoli remare senza sosta.
Il nemico ci tallona da tempo, sento il suo fiato sul collo: siamo riusciti a sfuggirgli grazie allo spirito di sacrificio dimostrato dall’equipaggio. Ma gli uomini sono stanchi, hanno bisogno di riprendere le forze: sono settimane che siamo in navigazione, e da due giorni il nemico non ci molla. La costa potrebbe darci l’opportunità di seminarlo – se solo la nebbia si diradasse quel tanto che basta da individuare un’insenatura adatta per nasconderci. Devo assolutamente trovare un ancoraggio sicuro dove fermarci per riprendere fiato: siamo a corto d’acqua e di viveri. Sento che la terra è vicina, ma non c’è niente di più terrorizzante che essere avvolti dalla nebbia in acque sconosciute.

Un po’ d’aria da est, è il momento buono per accostare. Se ci avviciniamo forse riesco a individuare un lembo di terra adatto. Ho dato ordine di non parlare, qualsiasi manovra va fatta in silenzio. Le vele cominciano ad animarsi, si gonfiano e iniziano lentamente a sospingerci. Guardo in alto e vedo piccole figure che si sbracciano sui pennoni per dispiegare le vele intorpidite dall’inattività. Il fruscìo della tela che si riempie di vita è un canto meraviglioso che ti fa venire i brividi lungo tutto il corpo. L’ambiente si scrolla da dosso i grigi vapori, mostrando un panorama sconosciuto e selvaggio. Finalmente uno scorcio di visuale: una costa scura e vulcanica, con rilievi disseminati di palme. Ecco, il promontorio alla fine di quel tratto di terra bassa potrebbe essere un nascondiglio adatto – sempre che non ci individuino prima. Stranamente la nebbia sembra richiudersi alle nostre spalle: sarà qualche folletto benevolo che ha deciso di aiutarci. Dirigiamo con cautela verso la costa e faccio segno al Secondo di far controllare il fondale, un marinaio lancia a mare la lunga cima dello scandaglio e con la mano mi segnala che non tocca. Siamo ancora in acque profonde, ma è meglio stare attenti.

Continuo a scrutare la costa in cerca di non so cosa, forse in un miracolo. L’uomo allo scandaglio segnala cinquanta braccia, il fondale comincia a salire, faccio segno di diminuire la velatura e di tenerci paralleli alla costa. Una strana spaccatura lungo una parete rocciosa m’incuriosisce, punto il cannocchiale e scruto attentamente il fianco di quella muraglia. Là, sembra un’apertura dentro la roccia, e faccio cenno di dirigere in quella direzione.

L’uomo allo scandaglio segnala quaranta braccia – la parete si avvicina e comincio a intravedere uno leggero squarcio che l’attraversa tutta tuffandosi nel mare. Sembra una sacca, una rientranza. Dovrei mandare una scialuppa a controllare quell’apertura, ma il nemico potrebbe sopraggiungere a momenti e sarebbe rischioso, sarei costretto a recuperare gli uomini in mare e ci beccherebbero in brache di tela. Voglio rischiare – e indico di avanzare lentamente.

L’uomo allo scandaglio segnala trenta braccia: c’è un silenzio che sa di paura, gli uomini evitano anche di respirare. Mi sento osservato da centinaia d’occhi che mi chiedono con lo sguardo a quale rischio stiamo andando incontro. Lo so è un azzardo costeggiare una terra inesplorata, ma tanto vale consegnarsi al nemico.

L’uomo allo scandaglio segnala venti braccia, forse sto chiedendo troppo alla mia buona stella, ma qualcosa mi dice che devo avanzare.

Un residuo di nebbia si disperde svelandomi quello che intimamente speravo più di ogni altra cosa: lo squarcio si allarga; un’ansa nascosta si apre gradualmente mostrando un passaggio stretto, ma attraversabile.

L’uomo allo scandaglio segnala dieci braccia, il fondale comincia a preoccuparmi, faccio cenno al timoniere di dirigere verso il centro dell’insenatura. Le pareti di roccia segnate da millenni di erosione ci ammoniscono incombendo sulle nostre incertezze – sono talmente vicine che sembra stiano per stringerci in una gigantesca morsa di pietra.

L’uomo allo scandaglio segnala cinque braccia, individuo una piccola rada a sinistra e faccio segno di dirigere da quella parte.

Dopo pochi minuti il silenzio viene rotto dall’ancora che si tuffa in acque cristalline, mentre l’uomo dello scandaglio raccoglie la lunga cima.

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Naufrago

Mi svegliai come da un lungo e angoscioso sogno: avevo le mani cosparse di piaghe, le labbra mi bruciavano maledettamente ed erano coperte di pustole; le spalle sembrava fossero attraversate da lunghi spilli roventi. Il pavimento si muoveva, anzi no, rollava: dei rigagnoli d’acqua salmastra, dal sapore stantio, sciabordavano senza sosta lambendomi il corpo disteso sul paiolato che puzzava di pesce marcio. Il sole era di un bianco talmente accecante che nemmeno socchiudendo gli occhi riuscivo a capire l’ambiente che mi circondava.
Fu l’odore del mare e lo sciacquìo dell’acqua che mi informò del mio stato di naufrago. Provai ad alzarmi, ma il rollio della scialuppa mi fece capire, senza pietà, le condizioni precarie in cui mi trovavo. La sete mi assaliva come un’orda di cani bavosi, ero circondato da un oceano d’acqua senza poterla bere. Mi girai sul dorso, allungai il braccio sostenendomi a uno scalmo e riuscii a sedermi al centro della barca: avevo la testa bombardata da centinaia di palle di cannone, da vele quadre incendiate e da alberi spezzati che cadevano sui ponti delle navi seminando morte e distruzione; da arrembaggi con spade ricurve, sciabole e coltellacci che trapassavano i corpi dei marinai, e palle di moschetto che dilaniavano la carne e menomavano senza pietà; da grida di uomini, lamenti di feriti, risate oscene, pianti irrefrenabili, visi deformati dal terrore, grida e bestemmie partorite dalla battaglia. E sangue, sangue d’ovunque. E grazie ad una pozza di sangue che scivolai infilandomi, contro la mia volontà, in una larga apertura  fatta da una palla di cannone e caddi in mare galleggiando in un groviglio di sartie e pennoni. E quando infine le due navi s’inabissarono contemporaneamente – lasciando a galla solo corpi e oggetti inanimati – con le ultime forze riuscii ad aggrapparmi a l’unica scialuppa rimasta intera in quel disastro.

 

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