ODISSEINA

   E fu così che l’Uomo di Pasqua decise di andare nella patria di Ulisse.

Salpò dalla città dei fiori, nella terra dei liguri, lungo la costa italica. Ci vollero ventun leghe per arrivare, al culminar del vespro, in quel di Genova.  Diede volta alle funi, pagò quarantadue pezzi d’oro e si mise in cerca di una bettola. Dopo aver saziato l’appetito, passeggiò per il vecchio scalo, in cui giocolieri, funamboli e venditrici di eros  facevano da contorno. Dopo un po’ tornò a bordo, si distese nel giaciglio e si affidò a Morfeo.

Il bagliore dei primi raggi di luce lo colsero che aveva già mollato le funi da una buona lega e aveva diretto la prua lungo il litorale. Eolo non si era fatto ancora vivo e lui era costretto a navigare con il Dispositivo a ingranaggi. Dovette usarlo per tutte le ventitré leghe, fino all’arrivo nel Golfo dei Poeti, il cui centro abitato sta al nome di La Spezia.

Navigò, cosi per molte leghe fino a giungere nell’isola di Elba, dove si fermò qualche dì. Là entro in possesso di un cavallo a due ruote con cui fece il giro dell’isola, ammirando la bellezza del posto. Dopodiché puntò la prua verso riva, ma fu un errore: là fu preda della Cala della Galera che gli rubò cinquantotto pezzi d’oro e non gli permise neanche di pregare il dio Web. Da quel momento la buona stella dell’uomo di Pasqua iniziò lentamente a scolorire.

L’inizio del giorno era passato da un po’, quando, improvvisamente, il suono del Dispositivo a ingranaggi diventò incostante. Che cosa sarà? Chiese al cielo.

” Puliscimi il filtro ”, si sentì dire.

” Chi è che mi parla? ”

” Sono il Dispositivo a ingranaggi ”.

” E come si fa questa cosa? ”

” Devi sbarcare sulla terra e invocare un dio Meccanico ”.

” Grazie Dispositivo a ingranaggi, sarà fatto ”.

Si volse verso la terra etrusca e sbarcò nella Santa Marinella. Là pregò un dio Meccanico che si materializzò solo il mattino seguente. Le sembianze di questo dio non erano esattamente etrusche, tantomeno mediterranee. Poi seppe che non era un dio, ma un semidio Meccanico proveniente dalla lontana terra, tra i due fiumi, oltre il sorgere del sole. Versò quaranta pezzi d’oro e riprese il mare. Improvvisamente Eolo scatenò la sua ira, forse per gelosia o forse per rabbia, non lo seppe mai. Provò ad avvolgere la vela di prua, ma invano; e dopo alcuni tagli e qualche colpo, riuscì a liberar la fune dall’albero e la velatura cadde.

Giunto nella città di Nettuno, signore del mare e delle acque italiche, s’incamminò per le vie alla ricerca di una bottega che gli fornisse armamentario necessario per proseguire il viaggio, oltre a pane, vino e provvigioni. Trovò un desco ben fornito e fece acquisti.

La scia del naviglio si allungava lega dopo lega. Superata, indenne, la montagna di Circe (ormai la porchetta la fanno ad Ariccia), era in vista dei natii lidi. Fu all’inizio del golfo di Puteoli che il Dispositivo a ingranaggi cessò di girare. “E ora che succede?” Invocò ad alta voce l’Uomo di Pasqua. La domanda non sortì alcuna risposta. A quel punto capì che il Dispositivo a ingranaggi era privo di vita. E fu così che Il naviglio, privo del Dispositivo a ingranaggi, e in assenza di Eolo, fu preda delle onde cagionate dalle imbarcazioni degli abitanti del golfo di Puteioli e del golfo di Neapolis, che nei giorni di Venere e Saturno, dell’equinozio d’estate, si dilettano a crear marosi e frangenti, spostandosi, ad alta velocità, tra la terra ferma e le isole. Per buona sorte il naviglio derivava lontano dall’Averno: dove si trova il regno dei morti di chitemuort.  Dopo aver reso omaggio agli dei, finalmente Eolo gli inviò un po’ di Maestro, così poté issare la velatura e continuare verso la sua destinazione. Giunto, dopo molte ore, nei pressi di un ricovero per navigli, fu traghettato all’interno; grato alla buona volontà di un compagno di vela. E fu lì che disse:
“Mi serve un dio di Meccanico!”

Fu grazie al canto di una sirena che prese forma un dio di Meccanico, il quale, forte nelle sue arti, fece risorgere il Dispositivo a ingranaggi. Alla fine, dopo aver chiesto come obolo quattrocentocinquanta pezzi d’oro, sentenziò:

” Stai attento Uomo di Pasqua che il Dispositivo a ingranaggi ti potrà creare altri problemi, perché è malato e ha qualche travaso ”.

” Ti ringrazio dio Meccanico e ho apprezzato la tua assistenza, ma voglio andare nella terra di Ulisse ”.

Lasciò l’ormeggio e, costeggiò il golfo delle sirene ‒ le quali erano rimaste senza voce per l’eccessiva umidità ‒, ma una riuscì a saltare a bordo: era una sirena del golfo di Neapolis, che aveva ancora un po’ di fiato nella gola e lo convinse (cantandogliene quattro) a condividere un pezzo di traversata insieme. Così l’Uomo di Pasqua, tenendosi legato all’albero saldamente, discese la costa della Lucania fino al villaggio di Maratea, in compagnia della sirena.

 Dopodiché puntarono verso l’isola di Eolo, per incontrarlo e chiedergli la ragione per la quale non si faceva più vedere da qualche tempo. Ma furono vane le suppliche e le preghiere al dio: non era in casa. Forse perché l’isola stromboliava abbastanza in quel periodo, chissà.

Improvvisamente la sirena, con un tuffo elastico, lasciò il naviglio e si allontanò al richiamo della sirena genitrice; la quale aveva problemi di salute.

Così l’Uomo di Pasqua, si riempì un otre di vino, una sacca di capperi e si allontanò verso Scilla e Cariddi; sempre in mancanza di vento. Abbandonatosi alle correnti, che in quelle ore erano favorevoli, attraversò lo stretto passaggio tra la terra italica e l’Isola del Sole e sbarcò a Reggio di Calabria. Fu là che la schiena gli venne meno. La ricerca di un rimedio diventò impegnativa, ma alla fine trovò il medicamento giusto; solo che dovette inocularselo da solo.

Ormai navigava lungo la Magna Grecia. La meta era prossima. Fece una sosta a Roccella dello Ionio, ivi c’era un ricovero per navigli ben attrezzato e ben tenuto. Dopodiché si diresse verso l’antica città di Kroton, vi sostò una notte e si sfamò di pesce fino a scoppiare. Poi la bianca Leuca, nel cui abitato già conosceva una famiglia che gli offrì ospitalità, cibo, dolci e libagioni in abbondanza. Salutati gli amici, salpò verso levante. Si fermò a Fanò e poi a Merlera, e infine nell’isola dei Feaci. E lì gli dei lo abbandonarono per sempre: il Dispositivo a ingranaggi iniziò a tossicchiare senza sosta.

” Cough, cough… cough…

” Che ti succede Dispositivo a ingranaggi? ”

” Non mi sento… cough… bene.”

” Che hai, esattamente, Dispositivo a ingranaggi? ”

” Non lo so… mi sento stanco e giro con difficoltà… cough! ”

” Adesso riposati Dispositivo a ingranaggi, pregherò un dio meccanico che venga a curarti ”.

L’Uomo di Pasqua, sbarcò in quel di Gouvia, dove c’era un buon ricovero per navigli, ma costava cinquanta pezzi d’oro al dì. In più quel posto era sottomesso al popolo teutonico che si era impossessato di quasi tutti gli attracchi Ellenici. Era preparato per quell’evenienza, sapeva a chi rivolgersi nel momento in cui il Dispositivo a ingranaggi avrebbe ceduto. S’inginocchiò e si preparò a invocare il dio Mc Giver, che in quel periodo dell’anno navigava in zona. Il dio Mc Giver gli inviò un messaggero SMS, il quale gli disse di dirigersi a sud est per quaranta leghe, esattamente nell’insediamento di Preveza dove lo stava aspettando un bravo dio Meccanico. Mentre navigava lungo l’isola dei Feaci, sentì chiamare il suo nome:

” Uomo di Pasquaaa ”

” Chi è che mi chiama? ”

” Sono io, Atena, dea della saggezza e dell’ingegno. ”

” Che cosa vuoi da me Atena ”

” Torna indietrooo, torna nella tua terraaa. Qui sei straniero in terra straniera, verrai tartassatooo ”.

” No, Atena, io devo navigare nella terra di Ulisse ”.

” Non lo fare, torna nei tuoi lidi, là conosci molti dii di Meccanici, rimanda la tua avventuraaa… ”.

” No, non voglio. Ormai è troppo tardi. Ho deciso di navigare, di conoscere altre terre, di esplorare altri mari… niente e nessuno mi farà cambiare idea! ”

” Sei un testardooo… Io ti ho avvertitooo, poi sono cazzi tuoiii ”.

Rimasto solo con i suoi tormenti , l’Uomo di Pasqua navigò quaranta leghe e al nuovo dì giunse in quel di Preveza. Inviò un messaggero SMS al dio Meccanico, il quale si materializzò il giorno dopo. Fu difficile comunicare con il dio Meccanico, ma grazie a gesti, segni e parole in lingua britanna l’Uomo di Pasqua riuscì a capire. Siccome la lingua era arcaica, per agevolare la lettura, vi sarà offerta traduzione:

” Dio Meccanico che cazzo ha il  D.I.¹?”             

” Il tuo D.I. è molto malato, deve essere tolto dall’alloggio e rigenerato completamente.”

” Azz… e quanto mi costa ‘sta tarantella²? ” 

” Ti costa circa settemila pezzi d’oro ”

” Alla faccia… Non mi puoi fare un po’ di trattamento³? ”

” Già te l’ho fatto: nel costo ho calcolato il varo l’alaggio e la sosta a terra, che sarà almeno di quindici giorni ”.

Dopo il trascorrere di mezza luna, si palesò il dio Mc Giver, che conosceva bene le arti dell’ingegneria, della nautica, della velica e della metallica, oltre a conoscere quattro cinque idiomi diversi. Individuò alcuni difetti nel naviglio, che dovevano essere assolutamente riparati, consigliò alcune attrezzature da aggiungere e gli costruì un tetto bimini con metalli riciclati, tutto per quattromila pezzi d’oro. Passarono due lune e finalmente il naviglio era tornato come nuovo (?). L’Uomo di Pasqua, alleggerito di undicimila pezzi d’oro più quelli necessari per nutrirsi, decise che ne aveva abbastanza della terra di Ulisse, e volse la prua a ovest, verso il grande mare oceano. E mentre ripercorreva rotte conosciute, pernottò, di nuovo, in quel di Roccella dello Ionio e lì, il Dispositivo a ingranaggi ebbe un piccolo mancamento. Invocò un altro dio Meccanico che individuò subito il problema, non era niente di grave, ma quell’avvenimento fiaccò definitivamente l’Uomo di Pasqua che inviò tanti di quei muort, chitemurt e chitestramurt che il regno dell’Ade tremò tutto, la terra si scosse, le foreste bruciarono, le montagne si aprirono, i fiumi si prosciugarono i mari si ritirarono e  fu così che il naviglio rimase in secca per sempre.

¹ D.I.: Dispositivo a ingranaggi – ²tarantella: lavoro, servizio –  ³trattamento: sconto (ndt).

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Geisha

Sembri pietosamente abbandonata: due parabordi di differente colore cadono dalle draglie, fin quasi a toccare la superficie dell’acqua. Quella barba di alghe formatasi intorno alla linea di galleggiamento sembra che stia lì solo e unicamente per produrre cibo per i pesci che ci girano intorno. La coperta è messa male e avrebbe bisogno di una bella scrostata e di una lucidata. Lo scafo è segnato da varie linee fatte da manovre disattente, impresse su un fondo arancione consumato dal sole. Il pozzetto sembra un mercatino dell’usato, con cime abbandonate qua e là; un salvagente buttato in un angolo, un asciugamano che fa da cuscino e macchie di muffa disseminate un po’ dovunque. Bisognerebbe sentire il motore e verificare la chiglia; per le vele non mi preoccupo, sicuramente saranno in condizioni pessime. L’albero sembra a posto, anche se tenuto su da sartie che andrebbero cambiate. Il cartello vendesi prende quasi tutto l’oblò di prua: anche quello è usato; starà lì da tempo. Non superi gli otto metri e mezzo secondo me, le murate sono alte, il pozzetto è ben protetto, sembri solida; hai solo bisogno di cure amorevoli.

Compongo il numero; ho deciso, ti chiamerò Geisha.

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Preda delle acque

La barca era piccola, troppo piccola. La costa era lontana; là, in fondo, oltre il buio.
O forse no? Forse la costa non c’era, forse non c’era niente oltre quell’oscurità immutabile? Forse c’erano solo voci sorde di disperazione? Bocche aperte prive di suono che chiedevano aiuto. Ma lui come poteva aiutarle? Era preda delle acque. Curvò le spalle alle tenebre intorpidite dalla sua incertezza; sentiva un grosso peso su di sé prodotto da una gravità opprimente. Cercava di ragionare, ma appena gli si formava un concetto logico, una mano diafana glielo ghermiva dalla mente.

Il vento soffiava a vortici insistenti e la barca non riusciva a trovare la rotta; le vele a brandelli creavano forme stridenti, i cui lembi tremavano nell’aria di quella notte eterna e silenziosa.

Era al timone da molte ore e da molte ore non dormiva. O forse erano giorni? Sapeva che se lasciava il timone, la barca si sarebbe capovolta in quel mare nero. Onde gigantesche lo superavano frangendo e spazzando il ponte da poppa a prua in un silenzio assordante. Ogni tanto qualche gorgo maligno ghermiva la barca facendola girare su se stessa. Sentiva freddo, molto freddo. Provò a cantare, ma le parole gli si gelavano sulle labbra appena uscivano dalla bocca frantumandosi ai suoi piedi. Mentre il vento gli strappava pezzi di pelle dal viso e dalle mani trasformandoli in mille coriandoli traslucidi. Finalmente un suono emerse da dietro le tenebre e si fece strada prepotentemente sopra la notte. Invase l’aria; attraversò lo scafo; s’infilò nel suo corpo e s’impossessò della sua coscienza. Si sedette al centro del letto; il telefono continuava a squillare come se avesse fretta di essere ascoltato.

Si alzò e andò a rispondere. Non c’era nessuno dall’altro lato del filo.

Solo l’ululato del vento.

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Cibo per i pesci

Cibo per i pesci, sono solo cibo per i pesci; quanto tempo mi resta ancora da vivere a quarantacinque gradi di latitudine sud? Quattro minuti, forse cinque…
La temperatura è al disotto dei sette gradi centigradi. La zattera è stata attaccata dagli quali: tre grossi squali grigi, che chissà per quale astruso motivo hanno deciso che il fondo nero e zavorrato del mio mondo fosse commestibile. I tubolari si sono afflosciati privi di vita al primo attacco e la mia casa – dopo quindici giorni di permanenza – si è inabissata rapidamente. Mi è rimasto il giubbotto di salvataggio, grazie al quale riesco a essere ancora un’entità pensante. Un albatro vola sopra di me e continua a fissarmi con un occhio vitreo; lui sa, ha capito: aspetta la mia morte.Quindici giorni alla deriva su una zattera senza incontrare neanche una bottiglia di plastica. Sono sopravvissuto grazie ad un pesce più curioso degli altri che si è avvicinato affamato sottobordo: faceva parte di un branco che aveva preso dimora da qualche giorno sotto la mia isola galleggiante. L’ho mangiato crudo; ho mangiato cruda anche una sula sprovveduta afferrata per un’ala cinque giorni prima. L’acqua mi è durata per i primi sette giorni, poi il deserto in un mare d’acqua. Sono riuscito a malapena a lanciare la zattera fuori bordo portando con me solo un coltellino svizzero – quando la barca ha disalberato dopo tre giorni ininterrotti di burrasca forza otto. Le onde sembravano delle montagne invalicabili che aumentavano in altezza a mano a mano che il vento rinforzava, il mare sembrava metallico; ogni goccia che mi colpiva il viso era uno spillo pungente che mi penetrava nella pelle – e nell’anima – togliendomi, anzi no, rubandomi ogni speranza. Tre giorni al timone a contrastare qualcosa di enormemente grande. L’oceano, in qualsiasi momento, era pronto ad avvolgermi in un grigio sudario.
Le apparecchiature elettroniche mi hanno abbandonato gradualmente: prima il pilota automatico, poi il GPS, subito dopo il radar e la radio, e infine le batterie. La navigazione procedeva bene, finché un fronte occluso mi ha costretto a virare a sud verso latitudini più fredde. Ormai ero in mare già da due mesi convinto di raggiungere il mio obiettivo. Ero partito da Città del Capo in direzione Melbourne: cinquemila e cinquecento miglia di oceano Indiano nei quaranta ruggenti. La barca l’avevo rubata a Salvador de Bahia; stava là incustodita e non ho resistito alla tentazione, dovevo assolutamente continuare il mio viaggio. Ero appena sbarcato da un cargo proveniente da Gran Canaria che trasportava datteri, lavorando nelle stive puzzolenti per pagarmi il passaggio. Alle Canarie c’ero arrivato in aereo perdendo la coincidenza per l’Australia, per via di uno sciopero degli addetti al controllo del traffico dell’aeroporto di Roma. Fiumicino sembrava un dormitorio pubblico, pieno di gente e valigie che si ammassavano ai botteghini in attesa dell’imbarco. Sono arrivato all’aeroporto in fretta e furia – lasciando la macchina noleggiata all’Avis fuori alle partenze – senza curarmi dei divieti. Quando la mattina sono entrato nell’agenzia di noleggio, poco distante da casa mia, ho chiesto la prima vettura disponibile e nella fretta gli ho lasciato anche la carta di credito, insieme alla bici: a cosa mi serviva ormai? Tutto questo perché ho trovato quel maledetto negozio chiuso. Una signora al primo piano mi aveva detto che si erano trasferiti in Australia a Melbourne. Non pensavo che scendendo da casa avrei trovato il negozio chiuso. Ero sdraiato sul divano guardando la tivù e all’improvviso mi sono ricordato del mangiare per Moby e Dick. “Oh dio”mi sono detto “il cibo per i pesci!”

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A volte i sogni s’infrangono su scogli veri.

E’ stato come un gemito infinito, uno stridente lamento che è emerso dalle profondità del mare e ha attraversato Malafemmena dalla chiglia fino e in testa d’albero.

Tutto tremava; anche noi. Come se la mano di un gigante l’avesse afferrata e scossa ripetutamente, facendola, poi, picchiare più volte sugli scogli sommersi a pochi metri dalla superficie; percuotendo anche le nostre anime. Era come assistere impotenti al martirio e alla violenza di un essere pensante, e lo stridore era la sua richiesta di aiuto.

Non c’è voluto molto per realizzare ciò che nella mia vita stava per succedere per la seconda volta. Quel suono di dolore ci ha attraversato la spina dorsale avanzando fino al complesso intreccio dei nostri cervelli istupiditi. Quei pochi attimi ci hanno fatto capire che non basta essere dei bravi ed esperti navigatori. No, non basta.

La Meda c’era, l’abbiamo vista, abbiamo virato standole a largo: distanti. Ma non è bastato.

Il nostro sogno si è incagliato su una secca al largo di Santa Eularia sulla costa sud di Ibiza.

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Tangeri

E’ buio, sagome scure dai contorni vaporosi avvolgono la signora della notte. Ogni tanto s’illuminano squarciando il buio con saette accecanti, poi un successivo basso brontolio mi avverte che la natura sta ancora sfogando la sua collera.

Ci troviamo all’imboccatura del porto di Tangeri, alle estreme propaggini del continente Africano, siamo appena usciti indenni da un’infida burrasca. Il vento picchia ancora forte ruggendo sull’attrezzatura di Anahita, che nonostante sia priva di vele, rolla con preoccupanti inclinazioni, almeno adesso siamo al riparo dalle onde. Mi sono accorto di non avere la mappa particolareggiata del porto, il che significa che è come trovarsi in un labirinto, al buio, dove non si riescono a definire neanche le pareti. Procediamo attenti, ma con difficoltà, il motore ringhia per l’alto numero di giri che sono costretto a dargli per tenere Anahita in rotta. Mi guardo intorno cercando di capire dove dirigermi, ma una moltitudine di luci riflesse sull’acqua mi confondono senza darmi la possibilità di individuare un bacino adatto alle barche da diporto. Vedo solo navi che sembrano enormi palazzoni illuminati a giorno che galleggiano sull’acqua smossa dal vento forte, nonostante l’apparente densità oleosa e la puzza che mi offende le narici. Sembra strano, ma sto pensando seriamente di virare e ributtarmi nella burrasca, credo però che Anahita ne uscirebbe danneggiata.

Là, una luce verde all’inizio di un braccio che si allunga fino a toccare quasi la banchina delle navi porta container. Veloce dirigo da quella parte, ma non si vede niente, solo le solite luci che si confondono in contorni di qualsiasi forma. Agguanto il binocolo con una mano, mentre con l’altra cerco di tenere il timone dritto per non andare a sbattere contro la banchina. Il terrore mi attraversa tutto il corpo, e sembra che continui la corsa trasmettendosi anche ad Anahita, che vibra tutta.

Un’entrata secondaria sembra indicarmi la possibilità di un’ulteriore insenatura, ci infiliamo all’interno con la speranza di aver imboccato il bacino giusto. Sono stanco, la burrasca mi ha messo in ginocchio, Anahita se l’è cavata bene: si è scrollata da dosso quei perfidi flutti che cercavano di trattenerci tra le loro grinfie. Siamo stati ghermiti dall’oceano e poi ributtati indietro come un pezzo di polistirolo; ora siamo molto provati. E’ stato un battesimo di fuoco, anzi per essere precisi una cresima, e lo schiaffo non è stato per niente leggero.

Anahita avanza rapida, mentre la paura mi assale: sono in un porto sconosciuto, al buio, sotto raffiche di cinquanta nodi, perso in un labirinto di darsene e col motore a pieni giri per contrastare il vento. Al primo errore siamo a scogli!

Non ce la faccio più, sono a pezzi, ho le braccia indolenzite dallo sforzo, mentre le gambe non riescono più a sopportare il peso del corpo. Sono infreddolito e tremante e col morale sotto il livello del mare.

Finalmente intravedo alcuni alberi di barche a vela, ma non riesco a capire da dove passare. Vado avanti e dopo un po’ individuo un altro braccio che si apre a sinistra – pieno, per la maggior parte, di pescherecci d’alto mare: neanche loro sono usciti questa notte. Procedo in quella direzione e in fondo intravedo, sotto una luce gialla, degli spettri che si sbracciano. Un lampo di trionfo m’ illumina il viso e punto, senza esitare, verso di loro. Alcuni uomini mi fanno cenno di accostare vicino ad altre barche a vela messe l’una a fianco all’altra, mi avvicino facendo ruggire il motore per contrastare la forza del vento – che non ne vuol sapere di mollare. Una decina di persone saltellano sopra le barche fino a raggiungere la più esterna. Lancio la cima di poppa e riprendo il timone manovrando per contrastare l’abbrivio di Anahita, e STUMP! In rumore atroce mi penetra fin dentro il DNA, mentre il motore si ferma. Capisco immediatamente l’origine della tragedia: la cima si è attorcigliata intorno all’elica. Mi volto e vedo due marocchini che litigano in un misto di arabo e francese accusandosi a vicenda. Le imprecazioni inviate da me all’indirizzo dei due sono simili a una raffica di mitra inarrestabile. Intanto Anahita inizia ad allontanarsi spinta dal vento, e io vado in panico.

Eccomi qua, di nuovo nei guai, devo agire immediatamente prima che andiamo a sbattere chissà dove. Prendo una lunga cima, ne do volta un’estremità, e mi tuffo nelle acque buie e puzzolenti del porto. Metto la cima tra i denti e con lunghe bracciate raggiungo le barche ormeggiate, ma perdo la presa e vado sotto annaspando nell’acqua lercia, mi dibatto cercando di risalire e guadagnare aria, ma la cerata mi fa da zavorra e mi tiene sotto contro la mia volontà. Tolgo velocemente la giacca e allungo un braccio verso l’alto disperatamente, mentre con l’altro nuoto, ormai certo di affogare se non trovo un appiglio, e…

Una sirena circondata da una folta massa di peli biondi tatuata su un avambraccio grosso quanto una gamba mi afferra e mi tira su con una facilità incredibile. Il vichingo mi fa segno di non preoccuparmi e di pensare alla barca. Mi rituffo, raggiungo Anahita e corro a prua per lanciare un’altra cima. Infine braccia amiche ci fanno accostare legando Anahita con sicurezza vicino alle sue sorelle. Un applauso con grida e fischi mi accoglie tra il gruppo di navigatori che mi hanno aiutato, mentre penso che c’è una solidarietà per mare che se ci fosse sulla terra il mondo sarebbe un posto migliore.

Sono a cena su una barca di francesi, insieme a un olandese, una coppia di svedesi e due tedeschi. Siamo tutti di nazionalità diverse, ma parliamo la stessa lingua. Quella del mare.

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Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle

Eccomi qua, di nuovo sulla barca, a organizzare tutto l’organizzabile, a cercare, senza trovarlo, il punto debole che potrebbe trasformare l’avventura in una tragedia; passando le ultime ore a chiedermi se è una follia il ritorno in Atlantico da solo. È troppo forte la voglia d’avventura.

Sono pronto, la paura mi viene a trovare, le dico che non è invitata ma lei se ne infischia e diventa quasi un ospite fisso; la ignoro e mi dedico a studiare la rotta per il ritorno. Compro sette stecche di sigarette e alle 11:00 del 27 maggio parto da St. Marten — con la convinzione di aver lasciato la paura sul pontile — e faccio rotta verso le Azzorre. Duemilaquattrocento miglia da percorrere in circa ventidue giorni. La giornata è splendida l’aliseo mi accompagna con dolcezza, comincio a rilassarmi e mi accendo una sigaretta (sarà l’ultima, le altre le ho regalate agli amici).

All’improvviso il tempo comincia a cambiare: grosse nuvole si ammassano all’orizzonte, il vento aumenta e il mare s’ingrossa; riduco le vele e mi appresto a passare la prima notte insonne. Fulmini all’orizzonte, la nottata è lunga e non fa sperare in niente di buono. Provo a mangiare qualcosa, ma è impossibile; mi sento dentro una betoniera. Mi accuccio in un angolo e m’impongo di pensare a cosa fare, ma… niente, non posso fare niente, tutto quello che potevo fare l’ho già fatto. Resto in attesa, prima o poi dovrà finire.

Le notti insonni aumentano, dopo una settimana sono ancora in balìa del maltempo. Mangio quando posso, dormo come posso. I bollettini meteo sono scoraggianti: si prevedono peggioramenti. Alle Bermuda, seicento miglia dalla mia posizione, ci sono ripetuti avvisi di burrasca, mentre la perturbazione si sposta verso la mia rotta. Una barca a vela tedesca, con cinque persone a bordo, ha perso il timone e va alla deriva per l’oceano.

Toc! Toc! La paura bussa, sprango la porta, ho problemi più importanti. La barca rolla ininterrottamente, l’interno è tutto bagnato, fa freddo e sono intirizzito, cerco di coprirmi con più indumenti possibili. Le onde s’ingrossano e cominciano a frangere; qualcuna anche all’interno. La mente lavora, poi vola e si lascia trasportare dalle onde.

I minuti si susseguono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane…

L’alba del 22 giugno mi regala finalmente una giornata tersa e un mare amico. Oltre la foschia, la sagoma di Pico, una delle isole di un arcipelago sperduto in mezzo all’oceano Atlantico: le Azzorre. L’arrivo a Faial è previsto tra circa sette ore. Finalmente mi rilasso e comincio a godermi quelle rimanenti ore di navigazione tranquilla. Avvisto un gruppo di Delfini con il ventre rosa, dopo un po’ la coda di un Capodoglio che s’immerge… le Azzorre sono famose per il whale watching. Alle 14.00 arrivo a Faial, faccio l’ormeggio da solo e mi avvio verso l’ufficio della capitaneria con la sensazione di camminare sollevato da terra. Forse è il mal di terra? No, è la mia anima che vola, la tappa più dura è finita e io sono raggiante; tutto intorno a me risplende.

Il porto turistico è ben attrezzato, ottimo rifugio e meta di tutti i navigatori atlantici. Il punto di ritrovo è nel “fumoso” bar Café Sport di Peter, dove tra una birra e l’altra, in una babele di lingue, la gente si scambia esperienze e storie di mare. Il fascino di questo porto turistico si manifesta lungo tutta la scogliera frangiflutti, dove ogni equipaggio lascia il proprio disegno, perché, si racconta, se non lo fai la malasorte ti perseguiterà. I disegni sono una vera esplosione cromatica, c’è ne sono di bellissimi, di ogni forma e colore, creati da gente che viene da tutte le parti del mondo. Questa isola è in pratica la Mecca dei navigatori atlantici. Mi metto alla ricerca di colori e pennelli per assolvere al mio dovere di pittore. Il disegno fa schifo, ma va bene lo stesso. Stasera bistecca e patate fritte, le sogno da tempo.

Mi trastullo qualche giorno, poi mi dedico alla barca con perizia, mancano ancora milleduecento miglia, non bisogna abbassare la guardia. Decido di fare una tappa intermedia, da Faial a Sao Miguel di centocinquanta miglia, poiché il tempo non mi convince.

Giunto, finalmente, a Sao Miguel dopo un’ulteriore prova di forza, riorganizzo la barca giacché l’ultimo tratto mi ha “rimescolato gli interni” e resto in attesa alcuni giorni di un bollettino meteo favorevole. Dopodiché mi rimetto in navigazione per altre mille miglia verso la mia ultima tappa.

Ricomincia il ballo: pioggia, vento forte, onde alte; musica già ascoltata. Più vado avanti e più peggiora. Oltre al maltempo devo stare attento anche alle navi, che in questa zona incrociano a centinaia, e di tutte le dimensioni. Stringo i denti e subisco senza fiatare.

Anche in questo tratto l’oceano ha messo a dura prova sia me sia la barca. Il mare grosso e il vento forte, mi hanno fatto stare in pena, sulla mia rotta sono riuscito a evitare due brutte depressioni. Alla fine la depressione ha colpito anche me, ma non quell’atmosferica.

Dopo cinque giorni sono stremato, decido di puntare su Lagos in Portogallo, è più vicino. Ci arrivo di notte, e per la mia negligenza rischio pure di andare a scogli. Passata la paura, resto in zona in attesa che anche questa perturbazione passi. Mancano solo cento miglia per il Mediterraneo e finalmente il 7 luglio si chiude il cerchio, sono a Gibilterra.

Mentre sono disteso al sole mi viene in mente una scena della mia infanzia: ero piccolo e stavo al mare con i miei, mio padre m’incoraggiava a entrare in acqua per insegnarmi a nuotare, ma io ero spaventato e gli dicevo: «Papà non ci riesco, ho paura».

E mio padre: «Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle».

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La tempesta Perfetto

La barca scivola sull’onda oceanica rollando dolcemente – mi sembra di volare. Sono in compagnia di un grande uccello bianco solitario – assiduo abitatore dei mari – che sfrutta le alte correnti ascensionali. La navigazione procede tranquilla. Sono immerso nella lettura di un classico romanzo dell’ottocento: ‘Moby Dick di Herman Melville’. E’ la storia della baleniera Pequod.“… bastimento vecchio e inusitato… „ comandata dal  capitano Achab.“… roso dentro e arso fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un’idea incurabile… „ E di Ismaele il suo narratore. “ Chiamatemi Ismaele, qualche anno fa non importa quando esattamente… „

Ma ho una sensazione strana che mi rende irrequieto. Il mare stranamente cambia colore, non il solito blu, ma un blu metallico; cominciano a crescere piccole onde dall’aspetto vitreo, il vento gira di qualche grado e s’intensifica. Mi guardo intorno e non vedo  più l’uccello che prima planava curiosamente a poppa. Non è un buon segno qualche evento si appresta.

Il vento aumenta d’intensità, riduco la velatura e viro di qualche grado per stabilizzare la barca, mi infilo la cerata e mi lego la cintura di sicurezza. Guardo il cielo attraversato da cirri, mentre in lontananza intravedo un gigantesco cumulonembo portatore di sventure, il che mi fa capire immediatamente le sue cattive intenzioni. Mi metto a secco di vele e resto in pozzetto in attesa degli eventi.

Il mostro si avvicina e ha la forma di un’incudine, la sua altezza arriva fino ai limiti della troposfera, sembra un fungo atomico dalla potenza devastante: il bianco delle sue propaggini contrasta fortemente con il grigiore della base che dopo un po’ s’intensifica scurendo verso il nero. Sotto, il mare comincia a ribollire creando strisce d’acqua polverizzata che dipanano a una velocità incredibile. La prima raffica mi coglie di sorpresa poi non c’è più storia: il rumore del vento da fischio acuto diventa un ululato agghiacciante fino a un turbinio assordante; le onde da dossi diventano colline e infine montagne. La barca si “corica”  in più occasioni portando l’albero in acqua: sembra un tappo di sughero sballottato in una caldaia infernale. E il mare diventa completamente bianco. Resto chiuso dentro sperando in un miracolo. “… Achab e l’angoscia giacquero coricati insieme nella stessa branda… „

Infine la pioggia: lacrime d’acqua che riempiono l’atmosfera, venendo giù a cascata e scrosciando violentemente sul mare in tempesta. Lacrime d’acqua che attutiscono il moto ondoso e mi regalano un filo di speranza. Lacrime d’acqua che si uniscono alle mie in un  fluido abbraccio per festeggiare il passato pericolo.

Sono fuori nel pozzetto a contemplare quel momento magico, quel miracolo della natura: il mostro si allontana spinto dalla sua forza devastante e porta con sé tutta la malevolenza e la maligna potenza di un evento atmosferico incontrollabile. Il mare lentamente si calma e trova un suo moto regolare, grosso ma navigabile, il vento si stende sull’acqua a una velocità sopportabile e gonfia le vele bagnate dalla pioggia,  il sole illumina il mare regalandogli la tonalità di blu più cangiante, il cielo si tinge di azzurro cobalto — troncato in due da una linea bianca: traccia di una civiltà moderna e frettolosa. Torna l’uccello, torna la pace. “… era la nave Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano… „

 

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