Viso di stoffa

Lo so dove sei andata. Ci sei andata altre volte, ma non serve; cerchi di alleviare i tuoi rimorsi chiudendoti in una stanza spoglia di un motel, coperta solo da un misero accappatoio che sembra un saio. Ti vedo, sul bordo del letto a ritoccarti il viso col portacipria di Swarovsky; è la tua natura, la tua essenza, la tua contraddizione. Io so cos’hai dentro, lo percepisco anche a distanza; ti nascondi a te stessa, ti ammanti di finto fatalismo, di responsabilità indotte. Esci da casa sorridendo a tutti e salutandoli con cordialità mentre i tuoi occhi brillano di un’altra luce. C’è un conflitto enorme dentro di te, complicato dalla tua presunzione di poter gestire tutti con il tuo viso di stoffa. Lo hai lavato troppe volte ormai: il tessuto si sgrana, devi indossarne un altro. Puoi comprarne uno nuovo, ma hanno messo i saldi. Saresti uguale agli altri.

Sei misera, ma non sei degna di pietà. La tua anima si perderà, continuerà a vagare finché il tempo cesserà. Sarà la tua nemesi. Mi hai reso schiavo della tua bellezza manipolando la mia mente come un pezzo d’argilla. Hai costruito un vaso e poi l’hai fracassato, riducendolo in mille pezzi. Li sto ancora raccogliendo. Molti sono inutilizzabili. A che serve ricostruirlo…

Neanche lui riesce a essere più misero di te. Lui che cerca di soddisfare il tuo corpo che reclama sesso mentre la tua mente ci gioca; mentre lo soggioghi con le tue malìe. Lui che è convinto di condurre il gioco. Che uomo stupido… Ti sei procurata uno stallone da monta, ma non sa correre: non è di razza. Con lui ti è più facile; la sua intelligenza è inversamente proporzionale alle sue prestazioni fisiche, mi dicesti. E io cercando di fare l’indifferente ti chiesi di cambiarti il vestito, quella sera del ricevimento. Non è importante cosa indossi, ma come lo indossi, dicesti.

Sì, vinci anche in questo: l’indumento non ti veste, sei tu che vesti lui. Nessun uomo ti veste, nessuno uomo ti vestirà mai.

Lui sarà arrivato ormai, starete a letto iniziando la vostra danza di guerra. Anche questo me l’hai detto tu. I preliminari sono come una danza di guerra intorno a un grande falò di passioni. Ricordi? Eravamo in macchina. Parlavi e il falò si rifletteva dai tuoi occhi, mentre dentro di me un rogo bruciava inarrestabile. Non risposi: avevo paura che smettessi di raccontarmi di voi due. Dopo un po’ passasti ai particolari. Eri precisa nelle tue descrizioni, come se ne stessi parlando con un’amica. Sembravi posseduta da una strana suggestione, ma non del tutto. Mi spiavi con la coda dell’occhio cercando di capire se mi stessi eccitando. Un gioco malefico il tuo. Non contenta, la tua mano iniziò ad accarezzarmi l’inguine. Fermati! Mi dicesti. Accostai e mentre osservavo il traffico notturno saziasti la tua sete nutrendoti della mia sostanza. Quella notte a letto ti cercai. Non adesso, mi dicesti girandoti dall’altro lato.

I giorni passavano sulle nostre vite, c’incontravamo sempre meno in casa, tranne la mattina. Cercavo di non pensarci, mi dicevo che presto sarebbe cambiato. Una sera, un collega di lavoro mi portò in un bar; erano giorni che insisteva. Era un bar di single; sagome scure; uomini e donne disillusi. Lei era simpatica; appena uscita da una storia sgradevole, ed era piena di grandi sogni. Non ricordo come, ma mi svegliai nel suo letto la mattina successiva. C’era un biglietto che mi invitava a rilassarmi come se fossi stato a casa mia e di farmi il caffè. Quando penso a lei mi tornano in mente solo i suoi occhi, occhi limpidi come acqua che scorre.

Dove sei stato stanotte? Mi chiedesti. E io per vendicarmi ti raccontai tutta la verità, tranne i particolari che m’inventai di sana pianta. Il tuo viso s’infiammò, una strana luce si formò nei tuoi occhi da gatta selvatica. Ti avvicinasti e strusciandoti cominciasti a gemere. Lo facemmo lì sulla sedia e poi continuammo nel letto fino a notte inoltrata. Non voglio dividerti con un’altra, mi dicesti alla fine. Andai in bagno e rimasi un po’ a guardarmi nello specchio e quando tornai stavi già dormendo. Era tornato tutto come prima.

Ritornai in quel bar, non so perché, ma ci tornai. Era presto, c’erano solo un paio di persone appoggiate sul lungo bancone. Chiesi al barista se l’avesse vista, ma non ricordava di chi parlassi. Fermai un taxi e mi feci portare a casa sua. Non ricordavo l’indirizzo, ma la zona sì. Una signora mi disse che era partita per l’Africa. Stava realizzando uno dei suoi sogni allora. Passai la notte girando senza meta per la città. Tornai a casa sperando di suscitare in te altro interesse, ma nessuna luce si formò più in quei tuoi occhi da gatta selvatica. Hai passato di nuovo la notte fuori? Mi domandasti, dandomi un bacio sulla guancia. E senza attendere risposta chiudesti la porta alle tue spalle.

Perché non smetti di vederlo, ti ho chiesto stamattina in cucina. I tuoi occhi mi guardavano da sopra il bordo della tazza del tè. Ti prometto che da domani non lo rivedrò più. Da domani.

Sto cadendo dal dodicesimo piano chiedendomi se lo rivedrai anche domani.

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Il mondo è grande

Serro la finestra: mi nascondo al mondo, mi chiudo nel guscio. Sono un paguro. Sono un’ombra proiettata su un muro; ma devo affrettarmi. Vorrei chiamarti, anzi no, vorrei invocarti, vorrei averti… vorrei viverti. Sono roso da una passione incontenibile. Dimmi quale vetta devo scalare; quale oceano devo navigare; quale deserto devo attraversare…

Chiudo la porta, ho la testa bassa, non cerco niente sul pianerottolo, è solo vergogna, vergogna di me. Ho le spalle curve: è un peso opprimente quello che mi trascino. Il peso dei miei pensieri: sono tanti, ormai non riesco più a contarli. Sono una folla che straripa dalla mia mente. Incontenibili, irrefrenabili. Corrono tutt’intorno fino a quando non diventano un unico vortice. Un possente uragano. Sono preso dalle sue spire assordanti.

Vorrei ringraziarti per avermi regalato momenti di delicata illusione, di felice speranza, di sognante aspettativa. Mi accontento, non sono nelle condizioni di pretendere di più.

Eppure…

Devo affrettarmi, il mondo è grande.

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La ricarica

Il cellulare squillava già da un po’; l’uomo si svegliò di soprassalto cercando di individuare dove l’avesse messo la sera prima. Poi, finalmente…

«Pronto!» Rispose.

«Ciao, ancora dormi?» Disse la voce dall’altro lato.

«Sì, che ore sono?» Chiese l’uomo posando lo sguardo sulla sveglia digitale, ormai ferma alle 15:38 di qualche settimana prima.

«Sono le dieci», rispose la voce femminile dall’altro lato.

«Caspita! E’ tardi, devo andare», disse lui schizzando fuori dal letto.

«Andare dove? E’ domenica!» disse la donna.

«Lo so, ma devo fare assolutamente una ricarica: non ho più tempo!» Rispose lui concitato.

«E dove? I negozi sono chiusi», chiese lei.

«Troverò sicuramente un negozio di turno aperto al centro: è impossibile che non ci siano», rispose lui – infilandosi la tuta da ginnastica e cercando di tenere fermo il cellulare tra la spalla e la guancia, mentre la gamba cercava la via d’uscita da una braca.

«Sei sicuro di farcela in tempo? Vuoi che te ne presti un po’ dalla mia ricarica?», disse lei ansiosa.

«No, stai tranquilla, ho ancora una mezz’ora abbondante; e in più dieci minuti di opzione ricarica d’emergenza», rispose lui, mentre si infilava le scarpe da ginnastica senza allacciarle.

«Hei! Non voglio essere invadente, ma è possibile che tu debba sempre ridurti a fare le cose all’ultimo momento?» Disse lei.

«Ora devo andare… », rispose lui cercando di troncare il discorso.

«E poi con le ricariche non si scherza, vuoi veramente rischiare di perdere tutto il tempo?» Continuò lei.

«Ciao, ti chiamo dopo», tagliò corto lui, chiudendo la comunicazione.

Scese di corsa le scale avviandosi alla macchina. Il tempo era brutto: grandi nuvole attraversavano velocemente un minaccioso cielo grigio. La pioggia cominciò a cadere pesantemente in grossi goccioloni che rimbalzavano rumorosamente sull’asfalto. Entrò in macchina che era già zuppo d’acqua. C’era molto traffico quella domenica, le macchine si muovevano lentamente – complici le strade allagate dalla pioggia battente. Dopo un tempo indefinito si fermò davanti a un display informativo: le lettere digitali scorrevano velocemente riflettendo nei suoi occhi affaticati. – NEGOZIO TIME DI TURNO IN VIA ALMANACCO,365 – Si infilò in macchina e, senza rispettare lo stop, partì. Giunto all’indirizzo l’entrata del negozio gli fu sbarrata da una barricata di assi in legno, con su appeso un altro display le cui lettere correvano più velocemente di quelle precedenti, creando delle strisce quasi intellegibili color sangue, e sperò che fosse un’impressione dovuta alla sua momentanea condizione d’irrequietezza.

– SI AVVERTE LA SPETTABILE CLIENTELA CHE DA OGGI RESTEREMO CHIUSI PER IL TEMPO NECESSARIO AL RIAMMODERNAMENTO. IL NEGOZIO TIME DI TURNO PIU’ VICINO E’ IN VIA DELLA CLESSIDRA, 60 – Rimontò in macchina e accelerò.

Finalmente trovò il negozio aperto. Posteggiò la macchina in divieto di sosta ed entrò di corsa. C’erano cinque persone in fila prima di lui: era preoccupato, si guardava intorno in cerca di un orologio, ma stranamente non ne vide. Chiese al tizio davanti a lui: «Scusi mi dice l’ora?»

«Ricarica scaduta vero?» Rispose il tizio.

«Sì… mi dice l’ora?», chiese di nuovo lui.

«Le 10:40», rispose il tizio guardandolo con ironia e girandosi, poi, in avanti.

Ormai gli restava poco tempo; doveva fare in fretta se no ci sarebbero state delle complicanze irreversibili. Prese il coraggio a due mani, si schiarì la voce e disse:

«Scusate signori ho fretta, fatemi passare, non ho molto tempo», mentre il corpo cominciava a sentire strane sensazioni di disagio. Tutti i presenti si voltarono verso di lui in un silenzio appesantito da sguardi accusatori. Una vecchietta in testa alla fila lo scrutò da capo a piedi e disse: «Lei crede che noi, invece, di tempo ne abbiamo da spendere, giovanotto? Perché non si è preoccupato prima di fare la sua ricarica? Mi guardi! Lo sa che ho novant’anni e che se avessi vissuto come lei non sarei mai arrivata alla mia età?» Voltandosi di nuovo in avanti. Un freddo sudore iniziò a stillargli sulla fronte, mentre le guance sbiancavano e le mani cominciavano a tremargli: si sentiva svenire.

«Vi prego! Vi scongiuro, sto male… fatemi passare, sto male!… Signorina glielo dica lei!» Chiese lui, rivolgendosi alla commessa che lo guardava attentamente.

«Per piacere fatelo passare, penso che al signore non gli sia rimasto molto tempo a disposizione», disse la commessa preoccupata.

«Effettivamente non ha una bella cera giovanotto! Le cedo il mio posto, anche se è uno scapestrato», ribatté la vecchietta anch’essa allarmata.

Lui si avvicinò a fatica al bancone cercando di sostenersi sulle braccia, intanto che le gambe cominciavano ad abbandonarlo.

«Mi dia la carta di credito», gli chiese la commessa.

Lui si frugò nelle tasche, ma un allarmante consapevolezza lo colpì come un pugno nello stomaco.

«Oh… Dio, n-no! L’ho d-dimenticata a c-casa» disse lui balbettando, non volutamente.

«Incredibile! Come si fa a essere così incoscienti?» Esclamò la commessa.

«La pago io la ricarica a questo dissennato. Forza! Non ho tempo da perdere!» Disse la vecchietta tirando fuori la carta di credito.

«Quanto tempo?» chiese la commessa.

«D-due s-settimane», rispose lui. Facendo una smorfia di dolore sotto forma di sorriso alla vecchietta.

«Mi dia il braccio», ordinò la commessa.

Lui stese il braccio sinistro sul bancone e la commessa gli appoggiò il lettore a barre a metà strada tra il polso e il e l’avambraccio. Il click attraversò tutto il negozio rimbalzando sulle pareti, come un’eco infinita.

Dopo alcuni secondi già si sentiva meglio. Le guance erano tornate del colore naturale e le mani non gli tremavano più.

«Signora non so come ringraziarla, lei mi ha salvato la vita. Mi lasci il numero della sua carta di credito che le restituisco i soldi», chiese lui alla vecchietta, ripresosi completamente.

«Glielo offro io questo tempo giovanotto», disse la vecchietta sorridendo. E poi:

«Che questo le serva da lezione. E si ricordi che il tempo non va trascurato. Glielo dice una che di tempo ne ha consumato molto».

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