Naufrago

Mi svegliai come da un lungo e angoscioso sogno: avevo le mani cosparse di piaghe, le labbra mi bruciavano maledettamente ed erano coperte di pustole; le spalle sembrava fossero attraversate da lunghi spilli roventi. Il pavimento si muoveva, anzi no, rollava: dei rigagnoli d’acqua salmastra, dal sapore stantio, sciabordavano senza sosta lambendomi il corpo disteso sul paiolato che puzzava di pesce marcio. Il sole era di un bianco talmente accecante che nemmeno socchiudendo gli occhi riuscivo a capire l’ambiente che mi circondava.
Fu l’odore del mare e lo sciacquìo dell’acqua che mi informò del mio stato di naufrago. Provai ad alzarmi, ma il rollio della scialuppa mi fece capire, senza pietà, le condizioni precarie in cui mi trovavo. La sete mi assaliva come un’orda di cani bavosi, ero circondato da un oceano d’acqua senza poterla bere. Mi girai sul dorso, allungai il braccio sostenendomi a uno scalmo e riuscii a sedermi al centro della barca: avevo la testa bombardata da centinaia di palle di cannone, da vele quadre incendiate e da alberi spezzati che cadevano sui ponti delle navi seminando morte e distruzione; da arrembaggi con spade ricurve, sciabole e coltellacci che trapassavano i corpi dei marinai, e palle di moschetto che dilaniavano la carne e menomavano senza pietà; da grida di uomini, lamenti di feriti, risate oscene, pianti irrefrenabili, visi deformati dal terrore, grida e bestemmie partorite dalla battaglia. E sangue, sangue d’ovunque. E grazie ad una pozza di sangue che scivolai infilandomi, contro la mia volontà, in una larga apertura  fatta da una palla di cannone e caddi in mare galleggiando in un groviglio di sartie e pennoni. E quando infine le due navi s’inabissarono contemporaneamente – lasciando a galla solo corpi e oggetti inanimati – con le ultime forze riuscii ad aggrapparmi a l’unica scialuppa rimasta intera in quel disastro.

 

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Il tempo

Il tempo mi ha rubato un altro anno… maledetto tempo: inizi con i secondi; poi i minuti; poi le ore e infine mi rubi giorni interi, settimane, mesi, anni! Lo so un giorno smetterai di correre, ti fermerai; ma sarà un giorno funesto… Ti odio tempo!

 

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La bicicletta

Lei mi aveva lasciato dimenticando il pupazzo con un buco al posto dell’occhio. Mi ritrovai seduto sul pavimento al centro della stanza senza riconoscere l’uomo riflesso nello specchio sulla parete opposta.“Chi sei?” Gli chiesi. Guardai verso la finestra: faceva buio, le luci si erano già accese illuminando una strada vuota e bagnata dalla pioggia autunnale. Un cigolio fastidioso si insinuò nella mia mente, mi alzai e guardai giù: la bici si trascinava rumorosamente trasportando una sagoma nera, ingobbita dalla pioggia che scrosciava rumorosamente. L’uomo sbandò e cadde; si rialzò dopo un po’ massaggiandosi il ginocchio e volgendo lo sguardo verso l’alto, scorgendo la mia figura scura sullo sfondo giallo della finestra. L‘uomo rimontò in sella girandosi a guardare, ancora una volta, nella mia direzione e continuò verso il suo destino.

Scesi le scale di corsa con il fiato in gola. Uscito in strada girai l’angolo: non c’era nessuno.

Mi ritrovai tutto bagnato al centro della strada lunga e desolata, senza capire perché. Tornai indietro noncurante della pioggia, superai il portone di casa e m’inoltrai nei vicoli silenziosi scrutando nel buio a destra e a sinistra alla ricerca del niente. Mi guardai i piedi: ero scalzo.

 

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Foglio bianco

Sono davanti a un foglio bianco, sforzandomi di vedere quello che non c’è, cercando di descrivere e trasformare in segni quello che penso, quello che si materializza nella mia mente. A volte lo guardo, gli guardo dentro, per interi minuti, guardo il suo biancore accecante, i suoi contorni, la sua geometria, la sua fredda immobilità, la sua gelida fissità, guardo la sua bidimensionalità, la sua algènte immutabilità. Poi comincio a far passare il mouse sulla barra degli strumenti e sulle funzioni: lo stile, il carattere, la dimensione, colore, sfondo… ”riscaldo le candelette”, prendo tempo. Rovisto nella mia testa, esploro, cerco, frugo; si affacciano le prime porzioni d’ immagini, i primi flash. Sono pezzi di ricordi, a volte in bianco e nero, a volte a colori, senza una forma definita, che cerco di fissare, di imprimere, sviluppare. Si delineano, si sovrappongono si trasformano, vanno via, ritornano. Cerco di dare un ordine al caos, cerco un entropia mentale. Prendo questi pezzi di puzzle e provo a unirli, selezionandoli, dividendoli, scartandone alcuni, aggiungendone altri. M’immergo dentro di loro, ci nuoto, mi lascio trasportare galleggiandoci sopra; attraversando vortici indefiniti, gorghi inspiegabili, supero colline di ricordi, altopiani di concetti, scalo montagne di significati, cordigliere di pensieri. All’inizio è un ricordo, lontano, remoto, vago, una storia , un racconto, una sensazione, una scena di un film, un libro letto anni addietro, o solo un immagine. Poi inizio a dargli una forma, un’ossatura, un corpo. Lo animo, gli dò vita, lo nutro, lo disseto, lo vesto di parole, di frasi, di locuzioni. oppure lo svesto, lo spoglio, lo disadorno, finché non ricresce e diventa adulto… pronto e chiaro come un mattino d’alta quota.

Il problema è trasformarlo in prosa.

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Dove sei?

Sono disteso sull’amaca, montata tra l’albero e lo strallo di prua, leggendo le disavventure di Edmod Dantés: tradito dagli amici, incarcerato e privato dell’amore di Mercedes Herrera, che amerà per sempre, nel Il Conte di Montecristo. Ogni tanto distolgo l’attenzione dalla lettura, e dò uno sguardo intorno contemplando lo spettacolo che mi offre la natura.

L’aliseo mi accarezza avvolgendomi in un abbraccio caldo e costante, creando un dolce fruscio tra le palme di cocco protese verso il mare e distorte dal vento e dalla gravità. L’acqua cristallina, la cui trasparenza rende il fondale minacciosamente vicino, riflette l’ombra della barca che dondola dolcemente all’ancora. Sotto di essa, nella doppia veste di prede e predatori, un universo  variopinto s’industria alla ricerca dell’unico motivo di sopravvivenza, tra gli scheletri calcarei dei coralli. Sulla spiaggia bianca e assolata due granchi si rincorrono in circolo in una strana e misteriosa danza d’amore o di morte. Poco più in là, un colibrì vestito di blu cangiante vola  a scatti repentini da un fiore all’altro baciandoli dolcemente. E ancora oltre, le onde dell’oceano si frangono in un susseguirsi continuo e rumoreggiante, su un confine delineato da coralli e madrepore. In alto si avvicendano veloci batuffoli di cotone che si stagliano contro l’azzurro di un cielo caraibico, punteggiato da nere sagome dal preistorico profilo, che volteggiano alla ricerca di cibo. In lontananza un triangolo bianco risale il vento dirigendosi, senza fretta apparente, verso chissà quale esotica meta.

Mentre nella mia mente si forma il canovaccio descrittivo di questo scenario naturale… penso a te: rimbalzi nella mia mente come una palla di flipper, creando scintille di coscienza e  incertezza a ogni pensiero che si forma. Ogni impulso nervoso è ricoperto dalle tue sembianze: da un sorriso, uno sguardo, una posa. La tua immagine cresce a dismisura, a volte deformata, fino a straripare dallo schermo della mia immaginazione. Cerco di materializzarti nella mia memoria, ma perdo pezzi congrui di fantasia e annaspo tra i marosi dei tuoi molteplici profili, cercando di aggrapparmi a qualcosa di reale per non impazzire. Ti trovo e poi ti perdo in una danza ipnotica e surreale, combattendo tra ragione e follia, perdendo capacità e discernimento…

E ti allontani: la tua sagoma di spalle, contornata da una lattiginosa luce bianca, cammina lentamente verso uno spazio buio e senza fine. In un altro posto, in un’altra terra, in un altro mondo, in un altro sistema, in un’altra galassia, in un altro universo, in un’altra vita!

Mi sveglio, allungo le membra con un movimento graduale e lento; i colori sono svaniti e il buio si è impossessato della luce, lasciando il posto a uno scenario diverso. La notte inizia a macchiarsi di minuscole luci di differente luminosità, il cielo stellato sopra di me non è un sogno ma una realtà. Una lacrima incontrollata forma un lungo solco sulla mia guancia, e il mio pensiero ritorna a te, chiedendosi dove sei: “Dove sei Mercedes? Meraviglioso e immacolato frutto della mia immaginazione.”

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La tempesta Perfetto

La barca scivola sull’onda oceanica rollando dolcemente – mi sembra di volare. Sono in compagnia di un grande uccello bianco solitario – assiduo abitatore dei mari – che sfrutta le alte correnti ascensionali. La navigazione procede tranquilla. Sono immerso nella lettura di un classico romanzo dell’ottocento: ‘Moby Dick di Herman Melville’. E’ la storia della baleniera Pequod.“… bastimento vecchio e inusitato… „ comandata dal  capitano Achab.“… roso dentro e arso fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un’idea incurabile… „ E di Ismaele il suo narratore. “ Chiamatemi Ismaele, qualche anno fa non importa quando esattamente… „

Ma ho una sensazione strana che mi rende irrequieto. Il mare stranamente cambia colore, non il solito blu, ma un blu metallico; cominciano a crescere piccole onde dall’aspetto vitreo, il vento gira di qualche grado e s’intensifica. Mi guardo intorno e non vedo  più l’uccello che prima planava curiosamente a poppa. Non è un buon segno qualche evento si appresta.

Il vento aumenta d’intensità, riduco la velatura e viro di qualche grado per stabilizzare la barca, mi infilo la cerata e mi lego la cintura di sicurezza. Guardo il cielo attraversato da cirri, mentre in lontananza intravedo un gigantesco cumulonembo portatore di sventure, il che mi fa capire immediatamente le sue cattive intenzioni. Mi metto a secco di vele e resto in pozzetto in attesa degli eventi.

Il mostro si avvicina e ha la forma di un’incudine, la sua altezza arriva fino ai limiti della troposfera, sembra un fungo atomico dalla potenza devastante: il bianco delle sue propaggini contrasta fortemente con il grigiore della base che dopo un po’ s’intensifica scurendo verso il nero. Sotto, il mare comincia a ribollire creando strisce d’acqua polverizzata che dipanano a una velocità incredibile. La prima raffica mi coglie di sorpresa poi non c’è più storia: il rumore del vento da fischio acuto diventa un ululato agghiacciante fino a un turbinio assordante; le onde da dossi diventano colline e infine montagne. La barca si “corica”  in più occasioni portando l’albero in acqua: sembra un tappo di sughero sballottato in una caldaia infernale. E il mare diventa completamente bianco. Resto chiuso dentro sperando in un miracolo. “… Achab e l’angoscia giacquero coricati insieme nella stessa branda… „

Infine la pioggia: lacrime d’acqua che riempiono l’atmosfera, venendo giù a cascata e scrosciando violentemente sul mare in tempesta. Lacrime d’acqua che attutiscono il moto ondoso e mi regalano un filo di speranza. Lacrime d’acqua che si uniscono alle mie in un  fluido abbraccio per festeggiare il passato pericolo.

Sono fuori nel pozzetto a contemplare quel momento magico, quel miracolo della natura: il mostro si allontana spinto dalla sua forza devastante e porta con sé tutta la malevolenza e la maligna potenza di un evento atmosferico incontrollabile. Il mare lentamente si calma e trova un suo moto regolare, grosso ma navigabile, il vento si stende sull’acqua a una velocità sopportabile e gonfia le vele bagnate dalla pioggia,  il sole illumina il mare regalandogli la tonalità di blu più cangiante, il cielo si tinge di azzurro cobalto — troncato in due da una linea bianca: traccia di una civiltà moderna e frettolosa. Torna l’uccello, torna la pace. “… era la nave Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano… „

 

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Onironauta

L’avventura è iniziata, parto con mille dubbi e mille paure, ma con l’intenzione di realizzare il mio sogno. Mollo gli ormeggi con un ultimo sguardo alla grande baia, piena di barche, che si allontana lentamente da poppa; chiedendomi cosa pensassero i marinai del passato quando partivano alla ricerca di nuovi approdi. Costeggio un isolotto disseminato di pini mediterranei con scogli appuntiti che affiorano poco distanti da una spiaggia di sabbia vulcanica, dò qualche grado a sinistra e supero il promontorio col faro: quella striscia di luce mi affascina, è una sicurezza e un conforto per chi naviga. Sento uno sciabordio sospetto mi affaccio e vedo due delfini che giocano felici a prua. Li accompagno con lo sguardo e lascio fantasticare la mente allontanandola da pensieri funesti. Sono pronto ad affrontare la prima tappa del viaggio. La terra, al traverso di dritta, inizia ad illuminarsi e a prepararsi ad un’ altra serata estiva. Un gabbiano reale curioso, mi accompagna con la speranza di procurarsi qualcosa da mangiare, l’accontento e gli lancio qualche biscotto. Mi godo il tramonto che dal giallo passa all’arancio, poi al lilla e ancora al rosso vermiglio. Il sole, calando in lontananza, sembra faccia bollire il profilo del mare. Dopo un po’ un raggio verde parte dall’orizzonte e, per un momento, illumina il cielo; nei pochi attimi in cui si manifesta resto incantato ad osservarlo. E’ un effetto ottico raro, conseguenza della rifrazione solare sulla superficie terrestre, e per chi naviga è un segno di buono auspicio. Inizia a fare buio, Venere irradia la sua predominante luce fredda nella volta celeste, la quale comincia a puntellarsi di piccole luci che a mano a mano si fanno sempre più intense. La via Lattea crea un’enorme e polverosa striscia nel cielo, impossessandosi di un buio senza luna. Il gabbiano è andato via: sono solo. Metto la prua a sud ovest, regolo le vele, mi sdraio sulla tuga e contemplo la volta celeste. Comincio a individuare qualche stella: Andromeda, Arturo,Vega, la corona Boreale: mi sento piccolo. Devo stare attento, la rotta che ho tracciato è molto trafficata, specialmente d’estate; è una zona di mare difficile e imprevedibile, basta un niente e l’avventura si trasforma in tragedia. Mi organizzo i turni di guardia regolando la sveglia ogni quaranta minuti. Il mare e il buio – due elementi che combinati rievocano vecchie ataviche paure – mi fanno entrare in una specie di limbo nel quale non riesco a distinguere la realtà dal sogno. Ho letto da qualche parte che una situazione di “sogno lucido” tecnicamente viene definita “Onironautica”. Quale migliore definizione per chi sogna e naviga come me in questo momento. La notte trascorre lenta, sembra interminabile, attraverso lo stretto che mi porta nell’oceano infinito e comincio a sentirne il respiro, la forza, la potenza, l’onda. So che mi osserva, mi scruta, mi controlla e si domanda: “Dove andrà questo piccolo uomo su questo guscio di noce?”

“Mare ti voglio attraversare, voglio arrivare all’estremità della tua grandezza. Mare conosco la tua forza, la tua potenza e ho timore di te, ma sono un uomo e anche se sono piccolo ho una grande tenacia, lasciati attraversare, fammi realizzare il mio sogno, lasciami passare”… onironauta… realtà… sogno…

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Spugna

L’aria che respiro sa di te

L’acqua che bevo sa di te

Il cibo che mangio sa di te

Le scene che vivo sanno di te

Sono impregnato di te

Sono intriso di te

Sono una spugna che assorbe solo te

Strizzami e ti vedrai

Non lasciarmi, altrimenti mi prosciugherò giorno dopo giorno, perdendo così l’unica ragione di essere spugna.

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