SONO SOLO…
Sono solo, Emilio è partito. Gibilterra: un pezzo di roccia a sud della penisola Iberica; un pezzo d’Inghilterra che sonnecchia adagiata su vecchie storie di mare. Qui l’aria ne è permeata, tutto parla di imprese avventurose e di audaci capitani che sfidavano gli oceani. Ecco, la Rocca: un imponente promontorio che si allunga come un dito accusatore verso l’Africa. Provo la stessa sensazione degli antichi marinai che avevano paura di superare le Colonne d’Ercole, convinti che si precipitasse oltre la fine del mondo.
Anahita riposa tranquillamente ormeggiata al pontile dello Sheppard’s Marina. Il momento è arrivato, l’ansia dimora nella mia mente già da un po’: sto per affrontare l’Atlantico da solo per la prima volta, e ho paura di precipitare oltre l’orizzonte. Anahita mi guarda e sembra chiedermi verso quale avventura la stia portando. È già un motivo d’orgoglio vederla qua, alle porte dell’Atlantico. Anahita, la maestosa, madre di Mitra, dea della fertilità e della maternità, colei che nutre, colei che protegge, colei che governa gli eventi atmosferici: l’equivalente latino di Immacolata.
È buio. Chissà quanto tempo sono stato sul pontile a guardare la mia barca? È tempo di andare a letto, domani all’alba si parte. C’è un’aria tranquilla, una leggera nebbia galleggia sull’acqua, e sembra che il mare la stia inalando. Ho deciso: calo sul pontile e porto le gambe a sgranchirsi per l’ultima volta. Il Marina è deserto, solo qualche mattiniero come me che fa gli ultimi preparativi prima di partire. Sento il corpo attraversato da strani brividi, forse sono troppo teso; mi vedo come l’ultima foglia che cerca di restare aggrappata al ramo di un albero ormai spogliato completamente dall’inverno.
Mollo gli ormeggi, esco dal Marina lentamente e punto verso lo Stretto. Passo in mezzo a decine di grosse navi all’ancora nel golfo di Algeciras: giganti metallici che incombono su di me e Anahita, facendoci sentire ancora più piccoli. Accendo la radio e ascolto il primo bollettino meteo del giorno: lo spagnolo è una lingua gradevole. Uno sciacquio sospetto mi distoglie: prendo la telecamera e vado a immortalare una coppia di delfini che gioca sull’onda creata a prua da Anahita. Alzo le vele, le metto a segno e dirigo verso l’avventura. È il momento di far lavorare Mustafà: monto la pala a vento, tolgo il fermo, regolo la ghiera e lascio che lui trovi la giusta rotta.
Molti pensano che un navigatore solitario sia completamente solo, ma non è così. C’è la barca, che è la tua compagna di avventure, senza la quale non andresti da nessuna parte. Con la quale parli, non perché sei pazzo, ma perché la senti come un essere pensante, come una madre, una sorella, come una sposa. Lei ti sopporta e ti conduce in porti sicuri, chiedendoti solo di essere curata. Lei è il tuo guscio, il tuo bozzolo, la tua tranquillità. Poi c’è Mustafà, che sta di guardia ventiquattro ore al giorno: non mangia, non beve, non parla, non dorme e conduce la barca con qualsiasi mare e in qualsiasi condizione, mentre tu sei al sicuro dentro il tuo guscio. Perché l’abbiano chiamato Mustafà, un timone a vento, non lo so, ma è sicuramente un compagno di viaggio indispensabile per un solitario. Come fai a sentirti solo? C’è molta gente che è più sola di me, pur vivendo in mezzo ai propri simili.
Per colpa dei delfini, mi sono perso il bollettino meteo, il prossimo sarà tra sei ore. Questi sono errori che non si fanno.
Lo Stretto di Gibilterra sembra un’autostrada: barche, traghetti e superpetroliere si incrociano continuamente in uno degli specchi d’acqua più trafficati del globo. Laggiù, un branco di balene a coppie si dirige verso l’Atlantico; sono un po’ lontane, ma mi emoziono lo stesso. Queste sono scene che ti fanno pensare a un mare pieno di vita che viene costantemente inquinato dall’invadenza umana.
La radio stride ed emette il bollettino meteo: “…componente oeste fuerza cinco, marejada a fuerte marejada…”. Ci sarà un po’ di mare e vento contrario, dovrò risalirlo. Speriamo che non aumenti. Meglio che mi prepari un panino. Stare dentro a cucinare può essere pericoloso con tutte le navi che incrociano in questa zona. Mustafà non si sta comportando bene: Anahita va a zig-zag. C’è qualcosa che mi sfugge, la pala oscilla troppo. Forse se mettessi qualcosa di elastico che facesse da freno alle forti oscillazioni… Ecco, un anello fatto con un pezzo di camera d’aria può essere utile, proviamo. Adesso sì, va meglio, Mustafà lavora bene e la scia di Anahita è dritta come una spada. Non riesco a rilassarmi, vorrei leggere, ma apro il libro e vedo solo dei piccoli segni neri incomprensibili che mi danzano davanti agli occhi. Mi sento irrequieto, devo rilassarmi, ma come si fa?
È il momento di attraversare lo Stretto, la parte più pericolosa. Le grosse navi che incrociano – anche se hanno tutta una serie di strumentazioni sofisticate a bordo – non badano molto a un moscerino che galleggia. Tarifa è ormai alle mie spalle, comincio a sentire il respiro dell’Atlantico, ma ho la sensazione che stia respirando un po’ troppo forte, e la cosa non mi piace. E puntuale il meteo elenca la sua nemesi: “…componente oeste fuerza ocho, mar gruesa aumentando rapidamente a muy gruesa…”. Rintocchi funebri rimbombano nella mia povera testa, finché un campanello d’allarme mi scuote, facendomi destare da un torpore, seppur momentaneo ma intenso. C’è una sola parola per riassumere il bollettino meteo. Burrasca!
Ecco, l’Atlantico mi sta dando il benvenuto. Sono esattamente a metà strada tra una costa e l’altra, e sono esattamente in un mare di guai: è il caso di dirlo. Tra poco farà buio, ho appena superato Tangeri e mancano sette miglia per Cap Spartel. Se lo doppio, ho più possibilità di farla franca, posso virare e prendere il mare di poppa.
Il respiro dell’Atlantico aumenta fino a diventare un soffio forte, e dopo un po’ uno sbuffo teso. Anahita inizia a risentire dello sforzo, la vedo che soffre: batte sull’onda pesantemente. Il mare continua ad aumentare, il vento spinge le onde nello Stretto, che aumentano a dismisura. Anahita arranca sempre di più; per fortuna che Mustafà resiste. Vengo sballottato da una parte all’altra del pozzetto nonostante l’imbracatura di sicurezza.
Ormai è buio, le luci sono lontane, sono solo fuori alla porta, ma l’Atlantico me l’ha chiusa in faccia. Adesso non ci sono più soffi, non ci sono più sbuffi, ci sono solo raffiche. Ululati che ci investono, che ci martellano e ci spingono indietro. Un suono familiare mi distrae, un suono che riesco a sentire nonostante il vento. “Sono Emilio! Mi trovo a Marbella, qui è un inferno ci sono cinquanta nodi di vento, e da te?”. Non gli rispondo, sono troppo impaurito; stacco il telefonino e mi metto al timone. Viro e punto sul porto di Tangeri.
Ci avviciniamo alla costa e le onde sono più alte e più micidiali di prima, cominciano a essere molto più ravvicinate e frangono inesorabili. Sballottiamo in acque burrascose col vento che grida nelle sartie. Ho le braccia indolenzite dalla tensione che il timone mi costringe a imprimere a ogni ingavonata. Mancano due miglia all’entrata del porto, siamo sopraffatti da treni di onde che ci martellano con accanimento. Vedo gli scogli che si avvicinano minacciosi, cerco di virare a sinistra, ma Anahita è preda dei frangenti e non risponde. Grosse gocce di sudore mi scivolano lungo la schiena in una notte buia e fredda. Mi aggrappo al timone e do tutta la barra a sinistra; sono al limite delle mie possibilità, non so più cosa fare: siamo schiavi dei flutti.
Un’onda anomala ci ghermisce e ci spinge verso l’alto, trasformando Anahita in un otto volante. Perdo la presa sul timone e cado nel pozzetto, battendo la testa su una sporgenza. Sprofondo in un’oscurità momentanea che mi avvinghia cercando di trattenermi, mentre Anahita batte con forza nell’incavo dell’onda successiva e si traversa. Si aprono le cateratte e ci sommergono totalmente. È finita!
Un silenzio improvviso e sconosciuto ci avvolge completamente, come se una mano divina avesse posto una teca sopra lo specchio d’acqua in cui ci troviamo. Un provvidenziale vuoto d’aria permette ad Anahita di riprendersi, e con uno scatto felino recupera l’equilibrio, rimettendosi miracolosamente in rotta. Raggiungo il timone e mi ci lego come Ulisse al canto delle sirene. Tremo, mentre lunghissimi minuti segnano la distanza che ci separa dalla salvezza.
Ecco! Il molo di sopravvento, ci siamo quasi! Viro a dritta con decisione e, come una magia, tutto si ferma. Resto qualche secondo stordito e completamente inerme: mi rimbombano ancora nella testa allarmanti residui di segnali di pericolo registrati dal mio cervello, insieme a immagini disastrose e agghiaccianti. Tiro un profondo sospiro di sollievo e mi volto in direzione dell’Atlantico. In lontananza, appena sopra le grandi masse d’acqua, vedo una sfera gialla che si affaccia dietro le nuvole: è la Luna.
Tangeri
È buio. Sagome scure dai contorni vaporosi avvolgono la signora della notte. Ogni tanto si illuminano, squarciando l’oscurità con saette accecanti; un basso brontolio mi avverte che la natura sta ancora sfogando la sua collera.
Siamo all’imboccatura del porto di Tangeri, alle estreme propaggini del continente africano. Siamo appena usciti indenni da un’insidiosa burrasca. Il vento ruggisce ancora sull’attrezzatura di Anahita, che, priva di vele, rolla con preoccupanti inclinazioni, ma almeno ora siamo al riparo dalle onde. Mi accorgo di non avere la mappa dettagliata del porto: è come trovarsi in un labirinto buio, dove non si distinguono neanche le pareti. Procedo attento, ma con difficoltà. Il motore ringhia per l’alto numero di giri che sono costretto a dargli per tenere Anahita in rotta. Mi guardo intorno, cercando di capire dove dirigermi, ma una moltitudine di luci riflesse sull’acqua mi confonde. Non riesco a individuare un bacino adatto alle barche da diporto. Vedo solo navi che sembrano enormi palazzi galleggianti, illuminati a giorno sull’acqua smossa dal vento. Nonostante la sua apparente densità oleosa, la puzza che assale le narici mi fa pensare seriamente di virare e ributtarmi nella burrasca, anche se credo che Anahita ne uscirebbe danneggiata.
Là, una luce verde all’inizio di un braccio che si allunga fino a quasi toccare la banchina delle navi portacontainer. Veloce, mi dirigo da quella parte, ma non vedo niente, solo le solite luci che si confondono in contorni di qualsiasi forma. Afferro il binocolo con una mano, mentre con l’altra cerco di tenere dritto il timone per non andare a sbattere. Il terrore mi attraversa il corpo e sembra continuare la sua corsa, trasmettendosi anche ad Anahita, che vibra tutta.
Un’entrata secondaria sembra indicarmi un’insenatura successiva, e ci infiliamo all’interno nella speranza di aver imboccato il bacino giusto. Sono stanco, la burrasca mi ha messo in ginocchio. Anahita se l’è cavata bene: si è scrollata di dosso quei perfidi flutti che cercavano di trattenerci tra le loro grinfie. Siamo stati ghermiti dall’oceano e poi ributtati indietro come un pezzo di polistirolo; ora siamo molto provati. È stato un battesimo di fuoco, o per essere precisi, una cresima, e lo schiaffo non è stato affatto leggero.
Anahita avanza rapida, mentre la paura mi assale. Sono in un porto sconosciuto, al buio, sotto raffiche di cinquanta nodi, perso in un labirinto di darsene e con il motore al massimo per contrastare il vento. Al primo errore, siamo sugli scogli! Non ce la faccio più, sono a pezzi. Le braccia sono indolenzite dallo sforzo, mentre le gambe non riescono più a sopportare il peso del mio corpo. Sono infreddolito e tremante, con il morale sotto il livello del mare.
Finalmente intravedo alcuni alberi di barche a vela, ma non riesco a capire da dove passare. Vado avanti e dopo un po’ individuo un altro braccio che si apre a sinistra, per la maggior parte pieno di pescherecci d’alto mare; neanche loro sono usciti questa notte. Procedo in quella direzione e in fondo, sotto una luce gialla, intravedo degli spettri che si sbracciano. Un lampo di trionfo mi illumina il viso e punto, senza esitare, verso di loro. Alcuni uomini mi fanno cenno di accostare vicino ad altre barche a vela, ormeggiate una di fianco all’altra. Mi avvicino, facendo ruggire il motore per contrastare la forza del vento che non vuole mollare. Una decina di persone saltellano sopra le barche fino a raggiungere la più esterna. Lancio la cima di poppa e riprendo il timone, manovrando per contrastare l’abbrivio di Anahita, e STUMP!
Un rumore atroce mi penetra fin dentro il DNA, mentre il motore si ferma. Capisco immediatamente l’origine della tragedia: una cima si è attorcigliata intorno all’elica. Mi volto e vedo due marocchini che litigano in un misto di arabo e francese, accusandosi a vicenda. Le mie imprecazioni dirette ai due sono come una raffica di mitra inarrestabile. Intanto, Anahita inizia ad allontanarsi spinta dal vento, e io vado nel panico.
Eccomi, di nuovo nei guai. Devo agire immediatamente prima di sbattere chissà dove. Prendo una lunga cima, ne assicuro un’estremità e mi tuffo nelle acque buie e puzzolenti del porto. Metto la cima tra i denti e con lunghe bracciate raggiungo le barche ormeggiate, ma perdo la presa e vado sotto, annaspando nell’acqua lercia. Mi dibatto, cercando di risalire e respirare, ma la cerata mi fa da zavorra e mi tiene giù, contro la mia volontà. Tolgo velocemente la giacca e allungo un braccio verso l’alto disperatamente, mentre con l’altro nuoto, ormai certo di affogare se non trovo un appiglio, e…
Una sirena circondata da una folta massa di peli biondi tatuata su un avambraccio grosso quanto una gamba mi afferra e mi tira su con una facilità incredibile. Il vichingo mi fa segno di non preoccuparmi e di pensare alla barca. Mi rituffo, raggiungo Anahita e corro a prua per lanciare un’altra cima. Infine, braccia amiche ci fanno accostare, legando Anahita con sicurezza vicino alle sue sorelle. Un applauso con grida e fischi mi accoglie tra il gruppo di navigatori che mi hanno aiutato, mentre penso che esiste una solidarietà per mare che, se ci fosse sulla Terra, renderebbe il mondo un posto migliore.
Sono a cena su una barca di francesi, insieme a un olandese, una coppia di svedesi e due tedeschi. Siamo tutti di nazionalità diverse, ma parliamo la stessa lingua. Quella del mare.
Gli ho dato un taglio.
Il buio si stava allontanando sbadigliando dietro l’orizzonte, quando cominciai a intravedere la sagoma lattiginosa di un’alta propaggine. Poi la radio gracchiò suoni incomprensibili e una voce metallica diramò il bollettino nella lingua dei marinai: “…vento da nord-est con rinforzi fino a trenta nodi, mare da mosso a molto mosso…” Ammainai la randa, ridussi il fiocco e continuai verso l’imponderabile.
Poco dopo le prime sventagliate d’aria iniziarono a colpire Anahita facendola rollare pesantemente: mi trovavo nel canale che univa Gran Canaria e Tenerife, dove i rilievi creavano un canyon sul mare alto oltre tremila metri. Il vento, incuneandosi tra quelle grandi pareti vulcaniche, accelerava fino a raddoppiare quasi la velocità. Anahita cavalcava l’onda con fatica sotto le raffiche incessanti, e io pregavo di superare al più presto quel passaggio infernale. Ma uno schianto feroce fece tremare Anahita in tutta la sua struttura, facendole perdere la stabilità, mentre cominciava a ruotare su se stessa. Guardai verso prua e mi resi conto del disastro subìto dalla mia compagna di viaggio: lo strallo di prua si era completamente sradicato dalla coperta, strappando quel poco di vela che la teneva in asse. Ormai eravamo preda dei marosi. Legai la cintura di sicurezza e corsi a prua armato di coltello per liberare l’albero da quel groviglio di tela e di cime. Ma la violenza del mare non ci dava tregua: le onde si susseguivano incalzanti, in un mare turbolento e insidioso, e si abbattevano su di noi senza pietà.
Lottai in un equilibrio instabile contro quella forza della natura che mi faceva cadere sul ponte a ogni ingavonata; mentre la sorte mi stava preparato un brutto scherzo: il coltello – come se avesse posseduto una volontà propria – tagliando l’ultima cima, continuò la sua corsa verso il basso e mi accorsi, in un misto di stupore e spavento, che mi ero procurato una ferita lunga e profonda sulla coscia sinistra, a poca distanza dall’arteria femorale. Paura e rabbia mi percorsero il corpo, provocandomi un tremito irrefrenabile, seguito da alcuni attimi in cui neanche il frastuono della burrasca si sentiva in quella quieta perdita di contatto con la realtà. Uscii da quel breve limbo e misi in sicurezza l’attrezzatura, e dopo aver annaffiato il ponte con il mio sangue, legai una cima sopra la ferita per fermare l’emorragia. Ero a trenta miglia dalla costa con mare in burrasca, grosse onde ci investivano senza sosta, martellando continuamente. Folate raccapriccianti ululavano tra le sartie. Anahita tremava mentre io ero sul punto di perdere coscienza. I minuti passavano lenti, ci mettevano secoli per formare un’ora, guardavo l’orologio con la netta sensazione che retrocedesse. Il mare ormai era diventato bianco, un bianco terrificante, mentre Anahita suonava clangori funerei sotto le raffiche insistenti.
E dopo molti secoli giunsi in vista del porto di Los Cristianos, allertai la Capitaneria descrivendogli le mie condizioni fisiche – se avessero saputo anche di quelle mentali oltre all’ambulanza, avrebbero mandato anche una camicia di forza: ero furioso e incattivito dalla tensione e condannavo la mia stupidità. Sono convinto che il terzo principio della Dinamica che afferma: “A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria” si possa applicare al mare, con una piccola variazione: “A ogni azione corrisponde una reazione doppia e contraria” . Il mare ti castiga con gli interessi a ogni superficialità commessa.
All’imboccatura del porto vidi un capannello di gente incuriosita vicino all’ambulanza, ma a questo punto necessita una descrizione minuziosa delle mie sembianze: avevo una cerata gialla, tagliata e macchiata di sangue, il cui contrasto tra i due colori era impressionante. La barba incolta, le occhiaie e il viso sporco di sangue rappreso non contribuivano per niente a darmi un aspetto gradevole. Inoltre la cima intorno alla coscia mi faceva deambulare con difficoltà. Il tutto mi dava un aspetto strano: sembravo uno zombie indemoniato.
Un infermiere comparve tra la folla, che si aprì come le acque del Mar Rosso, e facendomi adagiare sulla barella «Quiere beber agua?» mi chiese «No, una cerveza!», risposi. Era l’unica cosa che desideravo in quel momento.
Dopo un numero imprecisato di punti di sutura e un numero imprecisato di ore al pronto soccorso, tornai in barca come un cane bastonato. Quella notte non chiusi occhio; c’era un solo pensiero che mi ronzava in testa: che, per via dell’incidente, avrei dovuto rinunciare a fare la traversata dell’Atlantico. Ero molto abbattuto. Le telefonate degli amici non mi aiutavano certamente a risollevarmi: tutti mi consigliavano di abbandonare l’impresa.
Il giorno dopo mia moglie era a Tenerife, mi guardò negli occhi e, sapendo cosa mi passasse per la testa, mi disse: «Vai, continua, realizza il tuo sogno perché sono sicura che ci riuscirai.»
La barca ora è a Martinica nelle Antille Francesi, ma questa è un’altra storia.
Un’altra storia
L’Atlantico, una distesa d’acqua capricciosa come una donna. Ti seduce con le lusinghe, ti accarezza con il soffio leggero dell’Aliseo che ti spinge verso la meta. Ma all’improvviso tira fuori gli artigli, e la fiera diventa aggressiva e pericolosa, con sbuffi traditori e folate micidiali. Ti circonda con dolci colline d’acqua che degradano sotto la chiglia, e senza preavviso le trasforma in montagne insormontabili, inesorabilmente pronte a travolgerti. Ma Anahita, la mia compagna di avventure, mi è stata fedele. Non ha belle linee, ed è un po’ goffa, ma nonostante l’età mi ha condotto dall’altro lato dell’oceano, resistendo e sopportando ogni sollecitazione, e lasciando una scia di tremilaseicento miglia. Cosa si può chiedere di più a una barca?
Dopo quattro lunghe settimane finalmente la meta: Mont Pelée fa capolino dalla foschia. Sembra sorridere, un sorriso caraibico fatto di palme che svettano nel cielo azzurro, di lunghe spiagge bianche e un mare turchese e cristallino, abitato da pesci multicolori. C’è il profumo di spezie sconosciute, il suono delle Steel Band a ogni angolo di strada e un’aria calda e accogliente che ti avvolge come in un sogno.
Ho affrontato questa traversata con l’intenzione di superare l’oceano da solo, e tra piccoli e grandi episodi, mi sono aggiudicato il primo round di un incontro duro e senza esclusione di colpi. Ma l’incontro non dura un solo round e sono ancora lontano dalla meta; ci arriverò in serata. È buio, l’entrata è un dedalo di secche e reef, chiamato “cul de sac” dove non serve conoscere il francese per capire il significato: un budello cosparso di boe che segnalano il corridoio d’entrata. La prudenza mi consiglia di aspettare l’alba, l’azzardo mi incita a continuare: ascolto il secondo, sono stanco. Inizio a superare alcune secche seguendo attentamente le boe illuminate da una luce rossa: una, due, tre, quattro… dov’è la quinta? Quando realizzo l’errore, è troppo tardi.
Uno stridio sommerso mi fa accapponare la pelle. Anahita si blocca, si arena su un reef e resta immobile. È una sensazione orribile. Ho sentito la sua sofferenza fin dentro le mie ossa. Il mare mi ha presentato il conto con un alto tasso di interessi. Ho abbassato la guardia e subìto un KO che mi ha steso al tappeto. Devo rialzarmi prima che finisca il conteggio! Provo a dare motore, avanti e indietro, ma Anahita si appoggia su un lato e io soffro insieme a lei. Piango, mi inginocchio, mi dispero, sento il peso dell’universo addosso. L’arbitro continua a contare… sette, otto… è finita! Aspetterò l’alba per chiedere soccorso. Un sogno infranto proprio sul finale.
Mont Pelée non mi sorride più, è avvolto dal buio. Le palme, le spiagge bianche, le spezie, il mare turchese, sono scomparse dalla mia fantasia. Mi resta solo il vento, caldo e costante… il vento? Che stupido, sono uno stupido! Come ho fatto a non pensarci prima? È una manovra rischiosa, ma possibile! Perché non tentare? Male che vada, Anahita non si sposta più di tanto. Armo la randa, tiro su il fiocco e resto in attesa di un buon rinforzo di vento. Eccolo! Ora! Cazzo le cime a ferro! Anahita si inclina e lentamente comincia a spostarsi, liberandosi dal giogo e portandosi verso acque più profonde. Un urlo liberatore si ripercuote nell’oscurità, sciogliendo lo stress accumulato fino a pochi minuti prima. Mi sono rialzato prima che l’arbitro finisse di contare, e con un gancio ben piazzato ho abbattuto il mio avversario. Siamo pari!
Fatto l’ormeggio, m’incammino sul pontile in cerca di qualcuno con cui parlare dopo tante settimane di silenzio. Ma sono le tre di notte e non c’è nessuno. Torno in barca, ma il sonno non arriva. È strano che dopo aver desiderato per giorni di farmi una bella dormita, adesso non ci riesca. Sono a Martinica, Anahita è ormeggiata e riposa, e io sono sveglio.
Chi nu tene curaggio nun se còcca che e femmene belle
Eccomi qua, di nuovo su Anahita, a fare e disfare; a organizzare tutto l’organizzabile, a cercare, senza trovarlo, il punto debole che potrebbe trasformare l’avventura in una tragedia. Ho passato le ultime ore, prima della partenza, a chiedermi se è una follia il ritorno in Atlantico da solo su un guscio di circa dieci metri. Ma è troppo forte la voglia d’avventura.
Sono pronto, la paura mi viene a trovare, le dico che non è invitata ma lei se ne infischia e diventa quasi un ospite fisso; la ignoro e mi dedico a studiare la rotta per il ritorno. Compro sette stecche di sigarette e alle 11:00 del 27 maggio parto da St. Marten, Caraibi ‒ convinto di aver lasciato la paura sul pontile ‒ e faccio rotta verso le Azzorre: duemilaquattrocento miglia da percorrere in circa ventidue giorni. La giornata è splendida, l’aliseo mi accompagna con dolcezza, comincio a rilassarmi e mi accendo una sigaretta (sarà l’ultima). All’improvviso il tempo comincia a cambiare, vedo grosse nuvole che si ammassano sull’orizzonte, il vento aumenta, il mare s’ingrossa; riduco le vele e mi appresto a passare la prima notte insonne. Fulmini in lontananza, la nottata è lunga e non fa sperare in niente di buono. Provo a mangiare qualcosa, ma è impossibile, mi sento come dentro una betoniera. Mi accuccio in un angolo e m’impongo di pensare a cosa fare, ma… niente, non posso fare niente, tutto quello che potevo fare, l’ho già fatto. Resto in attesa, prima o poi dovrà finire.
Le notti insonni aumentano, dopo una settimana sono ancora in balia del maltempo. Mangio quando posso, dormo come posso. I bollettini meteo sono scoraggianti e si prevedono peggioramenti. Alle Bermuda, seicento miglia dalla mia posizione, ci sono ripetuti avvisi di burrasca; intanto la perturbazione si sposta verso la mia rotta. Una barca a vela tedesca, con cinque persone a bordo, ha perso il timone e va alla deriva per l’oceano.
Toc! Toc! La paura bussa, sprango la porta, ho problemi più importanti. Anahita rolla ininterrottamente, l’interno è tutto bagnato, fa freddo e sono intirizzito, cerco di coprirmi con più indumenti possibili; le onde s’ingrossano e cominciano a frangere ‒ qualcuna anche all’interno. La mente lavora, poi vola e si lascia trasportare dalle onde. I minuti si susseguono alle ore, le ore ai giorni, i giorni alle settimane.
L’alba del 22 giugno mi regala finalmente una giornata limpida e un mare amico. Oltre la foschia, la sagoma di Pico, l’isola di un arcipelago sperduto in mezzo all’oceano Atlantico: le Azzorre. L’arrivo a Faial è previsto tra circa sette ore. Finalmente mi rilasso e comincio a godermi quelle rimanenti ore di navigazione tranquilla. Avvisto un gruppo di Delfini con il ventre rosa, dopo un po’ la coda di un Capodoglio che s’immerge…
Alle 14.00 arrivo a Faial; faccio l’ormeggio e mi avvio verso l’ufficio della capitaneria con la sensazione di camminare sollevato da terra. Forse è il mal di terra? No, è la mia anima che vola: la tappa più dura è finita e io sono raggiante; tutto intorno a me risplende.
Il porto turistico è ben attrezzato, ottimo rifugio e meta di tutti i navigatori atlantici. Il punto di ritrovo è nel “fumoso” bar Café Sport di Peter, dove tra una birra e l’altra, in una Babele di lingue, la gente si scambia esperienze e storie di mare. Il fascino di questo porto turistico si manifesta lungo tutta la scogliera frangiflutti, dove ogni equipaggio lascia il proprio disegno, perché, si racconta, se non lo fai la malasorte ti perseguiterà. Tutti quei disegni sono una vera esplosione cromatica, ce ne sono di bellissimi, di ogni forma e colore, creati da gente che viene da tutte le parti del mondo. Quest’isola è la Mecca dei navigatori atlantici. Mi metto alla ricerca di colori e pennelli per assolvere al mio dovere di pittore: il disegno fa schifo, ma va bene lo stesso. Stasera bistecca e patate fritte, le sogno da tempo.
Mi trastullo qualche giorno, poi mi dedico ad Anahita con perizia. Mancano ancora milleduecento miglia, non bisogna abbassare la guardia. Decido di fare una tappa intermedia da Faial a Sao Miguel, di centocinquanta miglia, poiché il tempo non mi convince molto.
Giunto, finalmente, a Sao Miguel dopo un’altra prova di forza, riorganizzo Anahita giacché l’ultimo tratto ci ha “rimescolato gli interni” e resto in attesa alcuni giorni di un bollettino meteo favorevole. Dopodiché mi rimetto in navigazione per altre mille miglia verso la mia ultima tappa.
Ricomincia il ballo: pioggia, vento forte, onde alte; musica già ascoltata. Più vado avanti e più peggiora. Oltre al maltempo devo stare attento anche alle navi, che in questa zona incrociano a centinaia ‒ e di tutte le dimensioni. Stringo i denti e subisco senza fiatare.
Anche in questo tratto l’oceano ha messo a dura prova sia me sia Anahita. Il mare grosso e il vento forte mi hanno fatto stare in pena, sulla mia rotta sono riuscito a evitare due brutte depressioni. Alla fine la depressione ha colpito anche me, ma non quella atmosferica.
Dopo cinque giorni sono stremato, decido di puntare su Lagos in Portogallo, è più vicino. Ci arrivo di notte e, per la mia negligenza, rischio di andare sugli scogli. Passata la paura, resto in zona in attesa che anche questa perturbazione passi. Mancano solo cento miglia per il Mediterraneo e finalmente il 7 luglio si chiude il cerchio, sono a Gibilterra.
Sono disteso al sole e mi viene in mente una scena della mia infanzia: ero piccolo e stavo al mare con i miei, mio padre m’incoraggiava a entrare in acqua per insegnarmi a nuotare, ma io ero spaventato e gli dicevo: «Papà non ci riesco, ho paura». E mio padre mi esortava rispondendo: “Chi nu tene curaggio nun se còcca che e femmene belle”
Barbate – Guadeloupe a bordo di Elmo’s Fire, novembre 2011
01 novembre 2011
Sono le 03:30. È più di un’ora che mi giro e rigiro come uno spiedo. Ho avuto brevi incubi: piccole e brutte storie senza finali. Ieri sera abbiamo subito due strambate involontarie che hanno fatto tremare tutta la barca. Vittorio è riuscito a mantenere la calma e a riportare tutto come prima.
Gocce di tempo scorrono sopra l’oceano; anche questo bicchiere si riempirà prima o poi…
02 novembre 2011
Sveglia alle 05:50. I turni che mi sono toccati mi permettono di godere sia dell’alba sia del tramonto. C’è poco vento, le vele sbattono e la barca rolla.
… abbiamo filato tre lenze da quando siamo partiti, ma di pesci neanche l’ombra. Da Barbate a Gran Canaria, invece, in appena due ore di navigazione abbiamo preso tre bonitos e tre dorados. Eppure la zona è pescosa: da stamattina ci sono sardine che saltano, gabbiani a pelo d’acqua e delfini che gironzolano…
Ovatta nel cielo,
riccioli bianchi sul mare: l
atlantico!
03 novembre 2011
Andiamo con spi, c’è poco vento anche stanotte. Abbiamo percorso poco più di 500 miglia: la media è bassa. Infatti Vittorio ha deciso di non scendere oltre Capo Verde – come era da programma – ma di virare appena prima.
Pesci volanti planano sulle onde…
06 novembre 2011
Dopo vari tentativi andati a vuoto, stamattina finalmente abbiamo pescato due lampughe e, nel pomeriggio, un tonno. Ho messo tonno e lampughe tagliate a strisce in una marinata con olio, aceto, limone, vino bianco, aglio, peperoncino ed erbe aromatiche, le ho cotte pochi secondi nella padella antiaderente… ovazione dell’equipaggio!
07 novembre 2011
Ancora fiocco, comincia a fare caldo; le giornate hanno assunto una loro cadenza classica; il tema degli argomenti è sempre lo stesso: storie di mare, il tempo, il cibo…
Soffritto di stelle.
Luna alla piastra.
Mousse di oceano.
Frutta di mare.
E nelle pieghe delle onde tu.
08 novembre 2011
Lo spi si è strappato di un paio di metri e abbiamo messo su il fiocco. Superate le 1300 miglia: quasi al giro di boa. Sono un paio di giorni che è scomparsa l’onda oceanica, ma tornerà.
I giorni scivolano sull’atlantico, intorno a me un oceano che canta, scorrono le notti umide con spruzzi di plancton lucente, qualche stella brilla più delle altre, mentre Venere rincorre Giove che si nasconde là, sotto l’orizzonte…
11 novembre 2011
Abbiamo messo la carbonera con fiocco e trinchetta. Cucino barracuda fritto e verdure, poi lascio che la giornata continui per la sua strada.
Intanto l’oceano si srotola sotto la chiglia mentre il cielo corre verso ovest; poi la notte cala con il suo velo d’inchiostro bucato da lucciole immobili; infine sorge la luna, ormai colma di luce, che ci osserva dal suo primo quarto. E di nuovo il ciclo si ripete.
13 novembre 2011
Mancano 630 miglia all’arrivo, dovremmo esserci entro giovedì 17 mattina. Oggi è il compleanno di Nico; gli ho montato un video come regalo e Antonio gli ha fatto il dolce (crostata di confettura di frutta). Sono finiti i giorni con due cifre. Ancora con spi, carbonera e trinca. L’alba stamattina è stata infuocata…
Note che galleggiano sul mare; un sax che suona tra le onde dell’oceano, mentre l’aliseo se ne impossessa e le porta via con sé.
15 novembre 2011
Spi e trinca con poco vento. Ieri siamo andati quasi tutto il giorno a motore…
Il sole ai tropici cala così velocemente che si sente il tonfo.
Il mio mondo continua a oscillare sull’acqua, dondola sui flutti sotto cieli equatoriali, cieli che producono masse d’aria calda e umida che condensa e forma tempeste tropicali e uragani.
16 novembre 2011
Mancano 200 miglia. Un groppo di oltre i 35 nodi ci ha tenuti impegnati un paio d’ore con randa con due mani e trinca. Poi ci ha mollato inesorabilmente: ci stavamo divertendo, abbiamo anche pescato una lampuga andando a 12 miglia!…
… un sole bianco,
ritmi tribali che escono da un palmeto,
rimbalzano sopra le onde di un mare d’acciaio,
una voce lontana… visi…
17 novembre 2011
Mancano 70 miglia; l’arrivo è previsto in serata. Stanotte ci sono stati vari cambi di vele. Ora andiamo con spi a 7/8 nodi. Giornata buona, sgombra di groppi minacciosi. Sì, non la vedo ma la sento: è terra.
Tutto si consuma: i pasti, gli oggetti, le macchine, i metalli, le pietre, la carne, la pelle, le ossa, il tempo, la vita…
18 novembre 2011
Siamo arrivati alle 18:00 a Marie Galante. Stiamo qui due giorni e poi andiamo a Guadeloupe.
Ci dev’essere qualcosa oltre quella linea; qualcosa che giustifichi tutto questo mare intorno a me; qualcosa per cui sia valsa la pena di attraversarlo, tra onde frangenti e venti sibilanti; qualcosa che profumi di diverso, di nuovo. Ci dev’essere qualcosa dopo questo lungo oceano.
NAVIGAZIONE OCEANO INDIANO
09 settembre: Siamo partiti da Dili, Timor Est, alle 08:15. Equipaggio: io, Antonio Sanson e Sabele Fiorot. Vento da NE di 15 nodi. Alle 13:15 diamo motore per mancanza di vento. Il mare è poco mosso. Navighiamo per qualche giorno lungo l’isola di Timor, ben ridossati. Poi le vele si animano, si gonfiano e iniziano lentamente a spingerci.
CRESTE DI MARE
RIFLESSI ARANCIONI
IL SOLE CALA
11 settembre: Percorse poco più di quattrocento sessanta miglia, vento ESE, rotta 270°; fiocco tangonato e randa a farfalla. Abbiamo pescato una lampuga di circa tre chili. L’ho cucinata con cipolla, sfumata con un po’ di vino rosso, tipo una genovese. Rolliamo e Mustafà (il timone a vento) non tiene bene la rotta, lo blocchiamo e mettiamo Gennarino (il pilota automatico).
CERCO LA GIOIA
SUL MARE SCONFINATO
MENTRE ONDEGGIO
12 settembre: Dormo a poppa, ma i rumori sono ossessionanti, difficile riuscire a dormire. L’Indiano è l’oceano dei monsoni e delle onde incrociate e infide: una parte arriva dall’Antartide, una parte scende dall’Africa, il resto lo forma il vento da est.
NOTTI DI PLANCTON
SURCLASSANO IL CIELO
COLMO DI STELLE
13 settembre: È notte, vedo la Croce del Sud, non esattamente a sud, e altre costellazioni sconosciute a queste latitudini, tranne Orione che si fa spazio sul tardi. Notti stellate con un cielo senza luna, mentre la scia si allunga giorno dopo giorno.
LA RANDA AVREBBE BISOGNO DI UNA MANO: REGGEREBBE MEGLIO IL PASSO… INTANTO IL VENTO FA IL SUO MESTIERE.
14 settembre: Rotta 270°, velocità sei nodi, vento SE. Ore 02:17, sono di guardia sotto un cielo di stelle vecchie e nuove. Spica sembra che brilli più di Sirio, in un susseguirsi di colori che vanno dal rosso, all’azzurro, al bianco. Sembrano diamanti illuminati da un raggio di luce su un velluto nero. Siamo alla fine del quinto giorno di navigazione.
IL MARE RIBOLLE: PESCI MANGIANO PESCI.
16 settembre: Durante la notte Antonio mi sveglia convinto che una barca di pirati ci voglia abbordare. Era un peschereccio malese con reti a traino. Gli ho consegnato una sfilza di improperi.
18 settembre: Siamo arrivati a Christmas Island alle 07:40. L’isola è una briciola della vasta torta australiana; famosa per la migrazione dei granchi rossi. È più vicina a Giava che all’Australia. Chiamiamo la dogana per radio. Arrivano a bordo intorno alle 08:45: quattro omaccioni in divisa blu, di cui uno maori. Saliti a bordo, ci chiedono se abbiamo armi o droghe. Gli episodi di Airport Security Australia mi sfilano in testa uno per uno. Sono precisi, professionali, cordiali…
VELE AMBRATE
RISALGONO IL MARE
IL SOLE CALA
L’isola non è bella, almeno da quello che siamo riusciti a vedere. Nella rada, dove c’è un molo, ci sono quattro/cinque gavitelli, tutti occupati dalle barche della WORLD ARC. Buttiamo l’ancora poco distanti dal molo; a sinistra ci sovrasta, su un piccolo promontorio, un vecchio impianto di estrazione di fosfati che occupa parte del cielo: un cunicolo a forma di parallelepipedo che finisce in un fabbricato, da cui esce un enorme tubo che penzola sul mare. A destra la rada si allarga per un bel pezzo fino a un rilievo, per poi continuare fino alla punta ovest dell’isola. Di fronte, un altro promontorio alberato, con sotto una scogliera striata di guano, abitata da migliaia di uccelli: sule, fregate, sterne e fetonti dal becco rosso e dalla coda lunga. Ho visto dal vivo le fregate che attaccavano sterne e sule per farle rigurgitare il cibo: uno spettacolo crudele e brutale.
ALBA UMIDA
SU ACQUE SCONOSCIUTE
VOGLIA DI CASA
A Christmas Island la frutta e la verdura arrivano una volta alla settimana, e non sempre. Ci siamo trattenuti tre giorni e abbiamo fatto il giro dell’isola; poi la migrazione dei granchi rossi (svariati milioni di granchi che vanno a depositare le uova dalla foresta al mare).
21 settembre: Assaggiata Christmas Island, siamo partiti e mi è venuta un po’ di nausea. Non ho mangiato per qualche giorno e non sono andato neanche in bagno. Poi ho ricominciato a mangiare, un giorno sì e un giorno no. Tutto torna a posto…
LA LUNA CRESCE NOTTE DOPO NOTTE E GLI ODORI IN BARCA DIVENTANO INVADENTI E MALDESTRI.
25 settembre: Siamo arrivati a Cocos Keeling alle 07:20. Solita prassi: radio, controlli, dogana… Un grande atollo in mezzo all’oceano Indiano con un mare da sogno. Un posto bellissimo, abitato da meno di seicento persone su due differenti isolette – una comunità malese e una australiana. Abbiamo visitato i due posti in meno di mezza giornata e il resto dei giorni siamo stati in ammollo in acqua, nonostante i piccoli squali pinna nera che ogni tanto ci giravano intorno. Raccogliere un cocco, privarlo della parte esterna su uno spuntone di ferro, romperlo, berne il succo e poi mangiarne la polpa, mi fa sentire più vivo.
Sabele ha pescato un carango (tipo dentice) di almeno quattro chili; l’ho pulito e fatto al forno con patate: la morte sua.
ZANZARE TIGRI CON DENTI A SCIABOLA
30 settembre: Partiti con una meteo che sembra buona… sembra. Il mare si ingrossa, il grigio del cielo gli fa da cornice: un quadro privo di colore. I giorni si consumano lentamente tra il fosco e il brillante. Incredibile l’umidità che ci avvolge in questi giorni: sguazziamo nell’umido appiccicoso come papere in una vasca melmosa.
NUVOLA BIANCA
CONTROLUCE NEL SOLE
SCIVOLA VIA
Mi sono anche preso una mezza intossicazione, mangiando lampuga a crudo con limone. Chissà di cosa fosse contaminata quella lampuga… Ho letto che nella spedizione organizzata con il batiscafo Deepsea Challenger di James Cameron, nella fossa delle Marianne, a undicimila metri di profondità, hanno trovato dei rifiuti plastici. Siamo tutti colpevoli.
Venti giorni di mare disagevole, venti giorni di apatia, riluttanza e mancanza di volontà di continuare; e umido, tanto umido… Che mi succede? Sono un navigatore che ha tenuto per troppo tempo i piedi per terra? A volte le risposte si nascondono nel più profondo dell’inconscio.
SPRUZZI DI LUCE
SUL MARE ONDEGGIANO
POI SI DISSOLVONO
15 ottobre: Arrivati a Rodrigues alle 11:40. Fuori al canale di entrata abbiamo dovuto aspettare il passaggio della nave Anna, che arriva una volta alla settimana. Poi abbiamo chiamato per radio la dogana, ma non ci ha risposto. Attraccata la nave, siamo entrati nel canale e abbiamo calato l’ancora. Siamo sbarcati col tender, ma all’uscita del piccolo porto ci hanno bloccati e fatti tornare indietro: dovevamo aspettare in barca i controlli di dogana e quarantena. Abbiamo aspettato due ore, più altre due passate tra scartoffie e pratiche burocratiche, saltando da un ufficio all’altro.
L’isola è bellissima, con spiagge bianche e mare cristallino, poco frequentata dai turisti. Gli abitanti sono prevalentemente creoli, la parte minoritaria è indiana e malese. Profumi intensi di spezie… Qui fanno un salame di maiale al miele gustosissimo; si mangia crudo o alla brace: da leccarsi le orecchie. Abbiamo trovato un ristorantino sulla spiaggia gestito da padre pescatore, madre cuoca e figlia ai tavoli: la ragazza è stupenda. Siamo stati tutto il tempo del pranzo, e anche più, con le sguesse che pendevano fin sotto il tavolo. Ovviamente, scorpacciata di pesce alla brace.
18 ottobre: Ultima tappa… Alcune centinaia di miglia, con un mare disagevole e la solita umidità che la fa da padrona… Siamo stanchi e facilmente irritabili. Col tempo, la barca diventa sempre più piccola e basta un niente per far scattare un alterco. Il sole nasce, si arrampica, poi discende; le notti scorrono veloci sulla nostra vita, come se qualcuno, oltre l’orizzonte, le tirasse su e giù come una tapparella.
LO YANKEE SBATTE, MENTRE L’INDIANO LO SCHIAFFEGGIA SPRUZZANDOGLI ADDOSSO IL SUO MALESSERE.
21 ottobre: Un mare gonfio di corsa avvolge gli scogli all’entrata del porto di Mauritius. Attracchiamo e affittiamo una macchina per fare il giro dell’isola (c’ero già stato e la conosco bene). Anche qui molte spiagge e mare cristallino, ma molti turisti, di quelli aggressivi. Sbarco dopo alcuni giorni e prendo un aereo per Réunion; la giro in macchina per quattro giorni. È la patria dei deltaplanisti, dei sentieri tra i vulcani e degli squali famelici; ma sembra di stare in Francia per il traffico e una pseudo tangenziale che attraversa quasi tutta Saint-Denis, la capitale.
Riordino i miei pensieri, li piego e li infilo nel borsone, insieme ai panni sporchi.
Sono un avventore avventato in cerca di avventura.
Onironauta
L’avventura è iniziata. Parto con mille dubbi e mille paure, ma con l’intenzione di realizzare il mio sogno. Mollo gli ormeggi con un ultimo sguardo alla grande baia, piena di barche, che si allontana lentamente da poppa. Mi chiedo cosa pensassero i marinai del passato quando partivano alla ricerca di nuovi approdi. Costeggio un isolotto disseminato di pini mediterranei con scogli appuntiti che affiorano poco distanti da una spiaggia di sabbia vulcanica. Dò qualche grado a sinistra e supero il promontorio con il faro: quella striscia di luce mi affascina, è una sicurezza e un conforto per chi naviga.
Sento uno sciabordio verso prua, mi affaccio e vedo un branco di delfini che giocano felici. Li accompagno con lo sguardo e lascio che la mente fantastichi, allontanandola da pensieri funesti. Sono pronto ad affrontare il primo trasferimento di un lungo viaggio. La terra, al traverso di dritta, inizia a illuminarsi e a prepararsi a un’altra serata estiva. Un gabbiano reale curioso mi accompagna, nella speranza di procurarsi qualcosa da mangiare; lo accontento e gli lancio qualche biscotto. Mi godo il tramonto che dal giallo passa all’arancio, poi al lilla e ancora al rosso vermiglio. Il sole, calando in lontananza, sembra far bollire il profilo del mare. Dopo un po’ un raggio verde parte dall’orizzonte e, per un momento, illumina il cielo. Nei pochi attimi in cui si manifesta, resto incantato a osservarlo. È un effetto ottico raro, conseguenza della rifrazione solare sulla superficie terrestre, e per chi naviga è un segno di buon auspicio.
Inizia a fare buio. Venere irradia la sua predominante luce fredda nella volta celeste, che comincia a puntellarsi di piccole luci che a mano a mano si fanno sempre più intense. La Via Lattea crea un’enorme e polverosa striscia nel cielo, impossessandosi di un buio senza luna. Il gabbiano è andato via: resto solo nel buio. Metto la prua a sud-ovest, regolo le vele, mi sdraio sulla tuga e contemplo la volta celeste. Comincio a individuare qualche stella: Andromeda, Arturo, Vega, la Corona Boreale; mi sento piccolo.
Devo stare attento, queste acque sono molto trafficate, specialmente d’estate. È una zona di mare difficile e imprevedibile. Basta un niente e il primo trasferimento si trasforma in tragedia. Mi organizzo i turni di guardia regolando la sveglia ogni quaranta minuti. Il mare e il buio – due elementi che combinati rievocano vecchie paure ataviche – mi fanno entrare in una specie di limbo nel quale non riesco a distinguere la realtà dal sogno. Ho letto da qualche parte che una situazione di “sogno lucido” tecnicamente è definita “Onironautica”. Quale migliore definizione per chi sogna e naviga come me in questo momento.
La notte trascorre lenta, sembra interminabile. Attraverso il passaggio tra due isole che mi porta in acque aperte e comincio a sentirne il respiro, la forza, la potenza, l’onda. Questo mare immenso so che mi osserva, mi scruta, mi controlla e si domanda: “Dove andrà questo piccolo uomo su questo guscio di noce?”
“Mare, ti voglio attraversare, voglio arrivare all’estremità della tua grandezza. Mare, conosco la tua forza, la tua potenza e ho timore di te, ma sono un uomo e, anche se sono piccolo, ho una grande tenacia. Lasciati attraversare, fammi realizzare il mio sogno, lasciami passare”.
Onironauta… realtà… sogno…
Una mano alla barca e l’altra per te.
Rispolvero le vele, armo la barca, metto a punto il mio equilibrio e comincio ad assaggiare il mare. I primi colpi dei marosi fanno impennare violentemente lo scafo. Il fisico comincia a invecchiare; bisogna anticipare gli imprevisti e tenersi forte. “Una mano alla barca e l’altra per te.”
La barca diventa un’estensione degli arti: i piedi, ad esempio. Anche lei subisce gli attacchi del clima. Il tempo lascia i segni, crudo e inesorabile, e si impossessa della sua resistenza. Spesso viene colpita da flutti martellanti e frangenti incalzanti: sprofonda e si risolleva, gemendo sottovoce, come se avesse doglie interminabili. In quei momenti siamo noi, i suoi amanti, a condurla verso ridossi più sicuri. Anche le meretrici meritano amore.
L’oceano mi si apre come un abbraccio materno e io gli vado incontro. I cieli ruotano rapidamente, come lo standby del desktop, portandosi via i minuti, le ore, i giorni, insieme alle onde. Ci sono onde maestose che sopraggiungono e ti sovrastano. Per un attimo ti rapiscono, innalzandoti verso il cielo, e rimani affascinato da tanta potenza. Poi, improvvisamente, passano sotto la tua chiglia, facendoti vibrare fin dentro le ossa, e si allontanano lasciandoti un vuoto immenso. Tra un’onda e l’altra è saltato fuori un pesce volante inseguito da una grossa lampuga color dell’oro nuovo. Chissà per quanto ancora il mare rimarrà vivo?
Un’altra notte mi raggiunge; mi supererà anch’essa insieme al vento. C’è un buio punteggiato di stelle in quella larga striscia nebbiosa che si chiama Via Lattea. La luna sorgerà più tardi, illuminata a metà. Il mare continua a pulsare, e io con lui, in un vuoto immenso e Perfetto.
Calano le notti umide.
Spruzzi di plancton lucente nell’oscurità.
Qualche stella, più delle altre, scintilla.
Giove rincorre Venere che si nasconde sotto l’orizzonte.
Intanto i giorni scivolano sul vasto oceano.
Preda delle acque.
La barca era piccola, troppo piccola. La costa era lontana, laggiù, oltre il buio. O forse no? Forse la costa non c’era; forse non c’era niente oltre quell’oscurità immutabile. Forse c’erano solo voci sorde di disperazione; bocche aperte prive di suono che chiedevano aiuto. Ma lui come poteva aiutarle? Era preda delle acque.
Curvò le spalle alle tenebre intorpidite dalla sua incertezza, sentiva un grosso peso su di sé, prodotto da una gravità opprimente. Provava a ragionare, ma appena gli si formava un concetto logico, una mano diafana glielo ghermiva dalla mente. Il vento soffiava a vortici insistenti e la barca non riusciva a trovare la rotta; le vele a brandelli creavano forme stridenti, i cui lembi tremavano nell’aria di quella notte eterna e silenziosa.
Era al timone da molte ore e da molte ore non dormiva. O forse erano giorni? Sapeva che, se avesse lasciato il timone, la barca si sarebbe capovolta in quel mare nero. Onde gigantesche lo superavano, frangendo e spazzando il ponte da poppa a prua in un silenzio assordante. Ogni tanto qualche gorgo maligno ghermiva la barca, facendola girare su se stessa. Aveva freddo, molto freddo. Provò a cantare, ma le parole gli si gelavano sulle labbra appena uscivano dalla bocca, frantumandosi ai suoi piedi. Mentre il vento gli strappava pezzi di pelle dal viso e dalle mani, trasformandoli in mille coriandoli traslucidi.
Finalmente un suono emerse da dietro le tenebre e si fece strada prepotentemente sopra la notte. Invasa l’aria, attraversò lo scafo, si infilò nel suo corpo e si impossessò della sua coscienza. Si sedette al centro del letto; il telefono continuava a squillare, come se avesse fretta di essere ascoltato. Si alzò e andò a rispondere. Non c’era nessuno dall’altro lato del filo. Solo l’ululato del vento.
La tempesta Perfetto
La barca scivola sulle onde oceaniche, rollando dolcemente, e sembra quasi volare. Mi fa compagnia un grande uccello bianco, solitario, assiduo abitatore dei mari; lui sì che solca le alte correnti ascensionali…
La navigazione procede tranquilla; sono immerso nella lettura di un classico romanzo dell’Ottocento: Moby Dick di Herman Melville. È la storia della baleniera Pequod.
“… bastimento vecchio e inusitato…”, comandata dal capitano Achab, “… roso dentro e arso fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un’idea incurabile…”. E di Ismaele, il suo narratore: “Chiamatemi Ismaele, qualche anno fa non importa quando esattamente…”.
Ma una sensazione strana mi rende irrequieto. Il mare cambia colore, non più il solito blu, ma un blu metallico; cominciano a crescere piccole onde dall’aspetto vitreo, il vento gira di qualche grado e si intensifica. Mi guardo intorno e non vedo più l’uccello che prima planava curiosamente a poppa. Non è un buon segno: qualche evento si appresta.
Il vento aumenta d’intensità, riduco la velatura e viro di qualche grado per stabilizzare la barca, mi infilo la cerata e mi lego alla cintura di sicurezza. Guardo il cielo attraversato da cirri, mentre in lontananza intravedo un gigantesco cumulonembo, portatore di sventure, che mi fa capire immediatamente le sue cattive intenzioni. Mi metto a secco di vele e resto in pozzetto in attesa degli eventi.
Il mostro si avvicina e ha la forma di un’incudine, la sua altezza arriva fino ai limiti della troposfera; sembra un fungo atomico dalla potenza devastante: il bianco delle sue propaggini contrasta fortemente con il grigiore della base che dopo un po’ si intensifica, scurendo verso il nero. Sotto, il mare comincia a ribollire, creando strisce d’acqua polverizzata che si dipanano a una velocità incredibile. La prima raffica mi coglie di sorpresa, poi non c’è più storia: il rumore del vento da fischio acuto diventa un ululato agghiacciante fino a un turbinio assordante; le onde da dossi diventano colline e infine montagne. La barca si inclina pericolosamente in più occasioni, portando l’albero quasi in acqua: sembra un tappo di sughero, sballottato in una caldaia infernale. E il mare diventa completamente bianco. Resto chiuso dentro sperando in un miracolo. “… Achab e l’angoscia giacquero coricati insieme nella stessa branda…”.
Infine, la pioggia: lacrime d’acqua che riempiono l’atmosfera, venendo giù a cascata e scrosciando violentemente sul mare in tempesta. Lacrime d’acqua che attutiscono il moto ondoso e mi regalano un filo di speranza. Lacrime d’acqua che si uniscono alle mie in un fluido abbraccio per festeggiare il passato pericolo.
Sono fuori nel pozzetto a contemplare quel momento magico, quel miracolo della natura: il mostro si allontana spinto dalla sua forza devastante e porta con sé tutta la malevolenza e la maligna potenza di un evento atmosferico incontrollabile. Il mare lentamente si calma e trova un suo moto regolare, grosso ma navigabile; il vento si stende sull’acqua a una velocità sopportabile e gonfia le vele bagnate dalla pioggia; il sole illumina il mare regalandogli la tonalità di blu più cangiante; il cielo si tinge di azzurro cobalto, troncato in due da una linea bianca: traccia di una civiltà moderna e frettolosa. Torna l’uccello, torna la pace. “… era la nave Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano”.